Teatro
Milo Rau alle Giornate degli Autori: la nostra arte è libera?
Mentre alla Mostra del Cinema di Venezia, nella prestigiosa sezione de Le Giornate degli Autori, si presenta il film The New Gospel-Il Nuovo Vangelo, ecco che Milo Rau interviene ancora nel dibattito pubblico ponendo, come sempre, questioni assolutamente scottanti. L’intervento che segue, in italiano grazie alla attenta traduzione di Giacomo Bisordi, assistente di Milo Rau, è stato appena pubblicato sul quotidiano di sinistra austriaco “Der Standard“, poi letto da Milo Rau per la radio tedesca NDR e per il Mladi Levi Festival (Ljubljana) nel contesto del “Caffè Filosofico”. Lo stesso testo è stato pubblicato in forma ridotto su Theater Herute Jarhbuch (libro annuale della critica teatrale dei paesi di lingua tedesca).
Ringraziamo Rau per aver voluto dare a Glistatigenerali la possibilità di condividerlo con i nostri lettori.
La nostra arte è libera?
Di Milo Rau
«Il problema non è che non sappiate che le nostre foreste stanno bruciando e che la nostra gente sta morendo. Il problema è che vi siete ormai abituati al fatto di saperlo». Questa è una frase del discorso tenuto dall’attivista e attrice indigena Kay Sara, lo scorso maggio, all’inaugurazione del Wiener Festwöchen. Kay Sara interpreta Antigone in Antigone in the Amazon, che avevamo iniziato a provare a Febbraio nella regione dell’Amazzonia in Brasile, con indigeni e attivisti del Movimento dei Senza Terra. Dopo solo due settimane, a metà marzo, è arrivata la notizia dei primi casi di Covid-19 nel Pará: noi stavamo provando nel nord di quello stato. Kay Sara si è ritirata nelle foreste dalla sua gente ed io me ne sono tornato in Europa.
Tutto questo è successo ormai quasi cinque mesi fa: l’inaugurazione del Wiener Festwöchen – avvenuta solo online – risale invece a tre mesi fa. Nel frattempo il Brasile, assieme agli Stati Uniti, è diventato l’epicentro mondiale dell’epidemia di Covid-19. Le foreste amazzoniche stanno bruciando con un’intensità mai vista prima e Bolsonaro e l’industria agriculturale, sua alleata, stanno traendo grandi vantaggi dal caos. Ma non sono soltanto i pascoli e le coltivazioni di soia e mettere in pericolo i polmoni del pianeta. Proprio dove oggi si trova il più complesso ecosistema del mondo, è stato pianificato un imponente progetto industriale, le cui dimensioni mi ricordano i sogni tecnologici della modernità. E mentre in Brasile l’Amazzonia brucia, in Europa l’industria della compassione va a pieno regime.
«Ci hanno mandato una moltitudine di opuscoli firmati da celebrità. Volete ridurre le vostre libertà: meno voli, meno sfruttamento, meno omicidi» afferma Kay Sara nel suo discorso, e continua: «Ma come potete credere che, dopo 500 anni di colonizzazione, dopo migliaia di anni di sottomissione del mondo, possiate essere ancora capaci di pensare qualcosa che non porti ulteriore distruzione?”
Dopo la prima ondata di Covid-19, osservando le scelte fatte dall’Occidente industrializzati – quasi tutte democrazie ovvero tutti noi – uno non può che essere d’accordo con Kay Sara: si prospettano solo nuovi disastri per il pianeta. Miliardi di euro sono stati stanziati proprio per quei settori che hanno avuto un ruolo determinante nella distruzione del nostro sostentamento negli ultimi decenni. Adesso possono finalmente completare il loro lavoro: compagnie aeree, industrie petrolifere, aziende automobilistiche. E, naturalmente, le conseguenze economiche a lungo termine del Covid 19 sono per la maggior parte non a carico dalle nazioni industrializzate, ma del Sud del mondo.
I prezzi delle materie prime sono crollati, le catene di rifornimento globali sono state sospese, e milioni di persone sono state spinte nella povertà. Il lockdown ha colpito queste nazioni, dove la maggioranza della popolazione vive comunque di stenti, alla maniera di una catastrofe biblica. Non muoiono solo di Covid-19 ma di fame, dell’inasprimento dei conflitti – e ancora: di Malaria e di tutte le altre malattie dei paesi in via di sviluppo per le quali, a differenza del Covid-19, questa «malattia del vecchio uomo bianco», non sono previste contromisure su scala globale. Cinicamente si potrebbe dire: per fortuna il Covid-19 ha colpito per prime e con più forza le élite ad alta mobilità e le società occidentali più vecchie, altrimenti non ci saremmo accorti di nulla.
Naturalmente i governi Occidentali hanno deciso di fornire aiuto finanzario anche ai settori sistematicamente meno rilevanti, come i teatri. Ma questa è solo una sorta di solidarietà decorativa perché solo i grandi beneficiano in modo più significativo di questo tipo di sostegni. Per quello che mi riguarda personalmente, la mia compagnia indipendente, l’International Institute of Political Murder è sopravvissuta a malapena al lockdown. Ma il teatro di cui sono direttore artistico, NTGent, con le sue quattro sale, sopravvive meglio al Covid-19 grazie all’aiuto governativo.
Naturalmente, adesso stiamo provando ad aiutare gli artisti le cui performance sono state cancellate. Facciamo sì che il nostro teatro sia aperto, mettiamo a disposizione le nostre strutture, il nostro apparato di comunicazione, la nostra tecnologia. Ma questo rimane solo un gesto limitato dal punto di vista sistemico. Perché il denaro destinato alla cultura, che sia in forma diretta dallo Stato o indiretta attraverso istituzioni che manifestano una forma di solidarietà, da dove viene fuori? Dall’economia. La nostra intera democrazia, la nostra intera prosperità – i teatri e le scuole, gli ospedali – si fonda (non completamente ma soprattutto) in definitiva sul denaro criminale delle grandi aziende.
Questo è ovvio ma permettetemi di darvi un esempio del tutto personale: alla fine di Agosto il mio nuovo lavoro «Everywoman» ha debuttato al Festival di Salisburgo, un monologo su cui ho lavorato assieme all’attrice Ursina Lardi e alla drammaturga Carmen Horbostel. Da molti decenni, uno degli sponsor principali del Festival di Salisburgo è un’azienda automobilistica, Audi; e questa finanzia, in aggiunta al festival, il F.C. Bayern, vincitore solo pochi giorni fa della Champions League. Dopo la guerra, Audi fu espropriata perché aveva abusato di migliaia di prigionieri dei campi di concentramento usandoli come schiavi per fabbricare serbatoi. Dalla sua rifondazione nel 1945, Audi, con la sua produzione di auto di lusso, ha continuato a lavorare alla distruzione del pianeta, attualmente come parte del gruppo Volkswagen.
Quasi tutti i miei registi e attori preferiti hanno lavorato al Festival di Salisburgo. Christoph Schlingensief, Needcompany, Kristof Warlikowski, solo per citare alcuni di loro – e nello scorso agosto, anch’io. Ma com’è possibile? Come può essere che respiriamo, pensiamo e facciamo arte all’interno di queste contraddizioni? Che questo non ci tolga il respiro? «C’è mai stato» chiede Ursina Lardi in «Everywoman», «un momento in cui la conoscenza e l’azione fossero così ordinatamente disgiunte come nella nostra epoca?» Come osiamo pensare di parlare, in queste condizioni, di «libertà artistica»?
Soltanto nei mesi scorsi abbiamo visto come le società occidentali abbiano agito collettivamente, razionalmente e secondo un’idea di solidarietà. Le nostre élite economiche e finanziarie hanno perso la loro immagine nell’arco di una sola notte, le grandi aziende hanno implorato i governi di aiutarle. Un’economia con la vita al centro, almeno per un certo lasso di tempo, ha avuto la meglio su un’economia del valore aggiunto. Tutti sembravano aver ripreso ad avere una dignità ed era come se, come diciamo in «Everywoman», ciascuno avesse visto il volto dell’altro per la prima volta. Come se «fossimo diventati, finalmente, parte di questo mondo che ci tiene in vita». È stato come se la mega-machine e il suo pensiero automatico fosse stata fermata.
E oggi? Mi sembra che sia passata un’eternità da quando mi trovavo in Brasile e da quando sono ritornato in un’Europa insolitamente vuota. Ma non solo siamo ritornati a compiere le solite azioni, ci stiamo anche affannando per recuperare il tempo perduto: quello era tempo guadagnato, non perso. Questo è, naturalmente, dovuto alla persistenza delle lobby e allo stesso tempo anche all’indole di noi stessi. Come in un incubo nel quale uno si trova di fronte a una catastrofe che si svolge senza volontà, è come se noi, in quanto cultura, «non fossimo capaci di alcun pensiero che non porti altro che distuzione» – per citare Kay Sara.
Il movimento improvvisamente comtemplativo delle élite occidentali, le nuove estetiche basate sul «rilassamento» e sulla «pazienza» sono forse l’esempio più bello e terribile. La maggior parte di noi artisti – cerchiamo di essere onesti – ha sentito che questo Immane Stop è stato un modo di liberarsi da una sorta di fantasma, determinato nel proprio intimo da una vuota spinta a produrre compulsivamente e giustificato soltanto dal darwinismo artificiale dell’industria culturale. Siamo, come ha scritto Franco Moretti nel suo libro sulla classe media europea «Il Borghese», la prima classe dominante nella Storia che ha scelto di consumarsi in una una produttività sfibrante anche quando il lavoro vero è fatto da altri.
Il Covid-19, tuttavia, ha rivelato la verità. Il flusso di beni tra il Terzo Mondo e le grandi aziende criminali è continuato, anche se i cittadini culturali occidentali sono stati seduti a casa per svariati mesi. Nonostante tutte le frenetiche riunioni Zoom ci siamo mostrati per quel che siamo: padroni-schiavi che addirittura provano a spacciare la loro pigrizia omicida per «sostenibilità». Audi ha continuato a produrre, proprio come Audi ha prodotto e sempre produrrà in qualsiasi contesto politico esistente.
E noi intellettuali? E noi artisti? Dopo alcune settimane di rottura – nelle quali un modo diverso di trattare le cose e vivere è diventato visibile – siamo tornati come macchine programmate alla nostra occupazione principale per altre centinaia di anni: fraintendere l’uno l’altro, deliberatamente. Il nostro modo di vivere, la nostra libertà sono la scultura sociale di un fallimento epocale. E i momenti assurdi, radicati in un’attualità sempre più cinica, non mancano. Quando ho cercato su Google le parole «clima» e «Audi» per trovare alcune informazioni per quest’articolo, l’elenco dei progetti scientifici e sociali per la tutela del clima era talmente lungo che ho avuto l’impressione che fossero soltanto Audi, Audi da sola, le industrie dell’auto e petrolifere, a poterci salvare dall’Apocalisse – quella che loro stessi stanno contribuendo a portare avanti.
Sappiamo tutti quello che dovrebbe essere fatto. Sappiamo che dovremmo protestare contro Audi, che dovremmo protestare contro tutte le aziende. Che noi, proprio come si dice nell’ultima scena di «Everywoman», dovremmo semplicemente andare nei negozi, nei supermercati, completamente rilassati, senza rabbia, ma pieni di gentilezza – e svuotare gli scaffali. Che dovremmo dire: non parteciamo più a questo gioco. Vogliamo dignità, umanità, giustizia. Dovremmo alzarci in piedi e dire: basta. Essere critici non è più sufficiente. Tutto, davvero tutto, deve cambiare. Vogliamo un’altra libertà.
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