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Ravenna Festival, Vladimir Majakovskij va in “Paradiso”

10 Luglio 2022

Prologo. E infine fu il “Paradiso”. Ultimo viaggio, termine della corsa. Il luogo dove nascono e finiscono i sogni, quelli che si ricordano a malapena, il posto dove si vorrebbe prima o poi andare perchè lo dicono in tanti e da secoli: lì si può stare solo bene. “Se fai da bravo vai in Paradiso!” Ma cos’è bene, cos’è male? Niente più guerre, non c’è fame. Gente che sorride e ha voglia di ascoltare. Ma dov’è? Sta su o giù? Dopo l’ultimo pianeta o dove?

Sì, sono racconti di armonie celesti. Di confini tra la terra e il cielo che difficilmente l’uomo saprebbe oltrepassare. Labili e inafferrabili: guizzano via come anguille nell’acqua nera lucente. Nella “Commedia” di Dante l’universo è un sistema concentrico di sfere, ognuna un cielo governato dal Sole, dalla Luna, Mercurio, Marte... ruotando in movimento eterno emettono vibrazioni. Musica e luce. Tantissima luce come quella che accoglie Dante mentre varca il “Paradiso”

«Quando la rota, che Tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso,
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto, allor, del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece mai tanto disteso.» (Paradiso, I, 76-81)

Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, guide per il “Paradiso” a Ravenna davanti alla tomba di Dante(foto Diego Rivera)

Ravenna. Il Teatro delle Albe ha chiuso nei giorni scorsi la sua trilogia dantesca con la terza Cantica, ideata e diretta da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari _ le precedenti “‘Inferno” e “Purgatorio” furono allestite nel 2017 e 2019 _ per il programma di Ravenna Festival. Una inedita “Commedia” quella delle Albe. Non distante culturalmente o incomprensibile, al contrario vicina alla nostra contemporaneità. Ha riflesso i nostri ultimi anni e in tanti si sono rivisti dentro. Ora che ha fatto il salto in avanti, quello paradisiaco, come nelle altre edizioni, conquistando e sorprendendo, occorrerà lasciare che il tempo lieviti le emozioni e le risposte ai nostri quesiti arriveranno dal di dentro. Non a tutto, ovvio, ma qualcosa, una carezza o un graffio resterà.

Dopo aver vagato “ne la città dolente”, “nell’etterno dolore” e “tra la perduta gente” è giunto così il tempo dell’ultimo passo: superare le porte del Cielo. Lasciata alle spalle la tomba del Vate, a Ravenna, dietro la chiesa di San Francesco, luogo consueto di adunata, il corteo, alla testa le due guide, Martinelli e Montanari, si è messo in marcia. Cento e cento passi ancora sulle tracce del primo viaggio, dove le Albe cinque anni fa calpestarono il primo itinerario verso l’Inferno. Ma ora è diverso. Tutto è cambiato. I tempi sono mutati. E anche la gente. L’inquietudine e certo sotterraneo ribollir di rabbia di quei lontani giorni ora è diventato nervoso stress da autodifesa, frutto di amara e distaccata solitudine. Le attese maturate nel tempo del Purgatorio sono diventate invece come acini d’uva secchi con la buccia rattrappitasi sui vinaccioli. In tanti si sono persi o rimasti barricati dentro casa. Altri invece stanno alla finestra mentre il corteo cresce lungo il cammino. Qualcuno applaude, altri apostrofa:”O voi che siete in piccioletta barca”. Marco e Ermanna vestiti di bianco sorridono avanzando, preceduti dal suono metallico di un trombone, fino a raggiungere l’ingresso ai giardini nel retro del Mar, il museo archeologico ravennate. Qui le porte del Paradiso introducono al giardino della Loggia lombardesca.

Marco Martinelli ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe aprono le porte che introducono al “Paradiso” (foto Silvia Lelli)

“Tre giri di tre colori e d’una contenenza”, un motto e un criptico gesto nell’aria delle guide “battezzano” chi viene fatto passare nell’oasi di verde davanti alla elegante loggia a cinque archi del 500. Un motto e un segno con la mano per svelare il mistero della Trinità: tre cerchi uguali e diversi: sovrapposti e incrociati, in proiezione l’uno sull’altro: e “l’un da l’altro come iri da iri/ parea reflesso, e ‘l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente si spiri”.

Si entra in un luogo festante e ameno, popolato da tanti bambini che corrono festanti. Sarà proprio una bimba che, descrivendo gesti nel cielo sarà raggiunta da altri bambini che recitano i versi di Emily Dickinson: “Cos’è il Paradiso?”.

Guardando in direzione del loggione, si scopre che ad ogni arco corrisponde una statua di marmo bianco scolpita alla moda del Bernini. Le mura attorno, foderate d’oro, brillano per contrasto con il biancolatte di santi e profeti. Al piano terra un ensemble di musicisti virtuosi (Vincenzo Core, chitarra, Raffaele Marsicano, trombone, Giacomo Piermatti, contrabbasso, Gianni Trovalusci, flauti e Andrea Veneri live electronics) esegue le scintillanti musiche composte ad hoc da Luigi Ceccarelli. Una colonna sonora che ruba ai canti sacri e alla sperimentazione, sposta in alto la cantica, facendola fluttuare a mezz’aria. Sonorità e volumi talvolta volutamente eccessivi costringono ad un ascolto non convenzionale. Il suono è materico, capace di levare e far muovere all’improvviso oggetti e persone, pur disposte ordinatamente, come in una Sacra Rappresentazione. E questa è dal punto visivo la più significativa evoluzione rispetto alle cantiche precedenti. Sono tra i veri protagonisti del dramma: i seicento cittadini che hanno aderito al progetto delle Albe seguendo scrupolosamente i consigli e i comandi di un direttore d’orchestra assai speciale come è Marco Martinelli, l’unico regista che in Italia e in Europa, sa come costruire un teatro di massa come lo intendeva il grande poeta Vladimir Majakovskij. E’ il magnifico miracolo di questa ultima cantica. I cento e più sono presenti, si spostano leggeri, da un lato e l’altro: invadono lo spazio e pochi minuti dopo, all’improvviso, svaniscono. Scompaiono per tornare. Come le fiammelle di mille moccoli che si agitano alla brezza di un vento leggero. Sembrano per un attimo spegnersi ma invece tornano, tremolanti e vive.

I cittadini che hanno risposto alla chiamata per il “Paradiso” in scena davanti alla Loggia Lombardesca (Foto Silvia Lelli)

Miracolo del “transumanare”, neologismo di Dante che spiega bene questo movimento di essere e non essere. Andare via e tornare. L’esperienza di un secolo di vita dentro un battito di cuore. Pochi secondi per attraversare un buco nero della galassia e riemergere. Il mistero della vita eterna. Nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma.

E questa evidenza spirituale che serpeggia in modo vivido nel “Paradiso” secondo le Albe. Strega e incanta per quel leggero senso di sospensione che dà i brividi. Non c’è spazio per le cose di questo mondo. Difficile, se non impossibile raccontare, come è avvenuto nelle cantiche precedenti, quella che è, e rimane, l’esperienza mistica del viaggiatore Dante. Non è possibile fotografare i luoghi né focalizzare i dettagli. Dalla rappresentazione si è passati alla enunciazione dei sentimenti e le impressioni davanti a tanta grandezza celeste. Anche l’incontro con le anime è completamente mutato rispetto all’”Inferno” e al “Purgatorio” dove i personaggi apparivano con pregi e difetti di uomini che hanno sbagliato. Rispondevano -a Dante che li interrogava- in modi talvolta anche urticanti ma “veraci”. Qui a parlare invece sono le statue (miracolo tecnico di questa Cantica, perchè fino a quel momento era difficile rendersi conto della loro finta staticità): cioè sono le anime stesse che scelgono di palesarsi ed entrare in contatto con il Poeta. La prima ad esprimersi dalla sua nicchia è Piccarda Donati (Camilla Berardi) strappata dal convento in cui si era rinchiusa e costretta dal fratello a sposare uno dei Neri. Secondo una leggenda morì di lebbra prima di consumare le nozze.

Nella scena San Tommaso (Roberto Magnani) e Marco Martinelli in una scena di “Paradiso” (foto Diego Rivera)

Salendo poi nel cielo di Mercurio ecco l’imperatore Giustiniano (Alessandro Renda) che propone pari pari i concetti e le parole dell’attuale amato papa Francesco sulle nefandezze del capitalismo e il bisogno di giustizia. Un accenno di danza sufi di Ermanna Montanari interrompe la galleria. L’attrice gira su sé stessa alla maniera dei dervisci rotanti. Un vortice continuo e ipnotico che genera distacco e serenità. L’attrice introduce i versi di Emily Dickinson : “I dwell in Possibility/ A fairer House than Prose /More numerous of Windows/More numerous of Windows” (Io abito la Possibilità/ Una casa più bella della prosa/ con molte più finestre/ superiore, quanto a porte”).

Cunizza da Romano (Laura Redaelli), mitica figura di donna amante della vita e dell’amore, appare invece nel cielo di Venere : qui rifulge “perchè mi vinse il lume d’esta stella”.

Sono rari, ma esistono, coloro che si mostrano di persona. Figure più “carnali’ delle statue come San Tommaso, frate domenicano (interpretato in modo ispirato da Roberto Magnani) che tesse l’elogio di Francesco d’Assisi e di cui ricorda la lezione ai membri del suo stesso ordine che invece hanno deviato dalla via tracciata dal fondatore. Nel cielo del Sole ecco il guerriero Cacciaguida, avo di Dante, con cui parteggia il dramma dell’esilio (“Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; è questo quello strale/ Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”). E’ il cammeo di un attore solido e immenso come Luigi Dadina che con un fil di voce apostrofa Dante e gli predice l’esilio (“Qual si partio Ipolito d‘Atene/ per la spietata e perfida noverca/tal di Fiorenza partir ti convene”) e previene il Poeta al futuro fatto di amarezza (“Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; è questo quello strale/ Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”). Il trisavolo viene attaccato da un gruppo di militari con le armi, ma questi vengono prontamente cacciati da Ermanna (“Andatevene. Non è posto per voi. Questo è il Paradiso non c’è posto per la guerra”) e allontanati da un nugolo di bambini. Volta per volta parlano ancora le statue intonacate. San Pier Damiani (Alessandro Argnani) si scaglia contro il lusso di certi prelati e San Pietro (Salvatore Tringali) che con Dante vuole approfondire le questioni della fede. Il coro recita i versi di Angelus Silesius: “Come un grano di senape/la fede/sposta il monte del mare/ chissà cosa farebbe/se fosse una zucca”. Magnifica e seducente la voce di Mirella Mastronardi eleva un canto che tocca il profondo del cuore.

Cacciaguida, avo di Dante (Luigi Dadina) viene aggredito da uomini armati. In primo piano Marco Martinelli (foto Silvia Lelli)

Portano ceste di pane che viene distribuito e condiviso. Atto rituale che lega spettatori e teatranti, attori e pubblico in un atto socialmente teatrale. Gli ultimi momenti ed atti della Cantica sembrano un invito a “transumanare”. A oltrepassare il confine, andare oltre e guardare in alto. Come raccontò un giorno Bernini, parlando, senza mai nominarlo, del suo rivale Francesco Borromini. Bernini che costruiva in modo ortogonale rilevò infatti come nelle chiese del Borromini, appena si entra, si è costretti immediatamente a guardare in alto. Quasi ad imitare Borromini si ordina che sei grandi teli neri come pianeti vengano stesi per terra dove il pubblico è invitato a sdraiarsi e guardare il cielo mentre Ermanna Montanari con voce roca e accenti severi legge il trentatreesimo canto della Commedia. L’ultimo.

 

“A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.”

(Paradiso. Canto XXXIII, 142-145)

 

Postilla. Lo stesso desiderio di immortalità di Dante si ritraccia in Majakovskij, ateo e materialista che pure ha ispirato grandemente la regia di queste straordinarie cantiche e per il quale “a rischiare si può perdere qualcosa, a non rischiare si perde tutto”. Marco Martinelli percepisce Dante e Majakovskij come “fratelli tormentati da un destino per tanti aspetti simile. Entrambi forti, entrambi fragili, entrambi con un bisogno assoluto di felicità, che non è mai rimasto un desiderio solamente intimo, perchè quel desiderio lo hanno trasformato in tensione al bene comune, alla politica, entrambi delusi dalla politica, l’uno condannato al rogo e all’esilio, l’altro condannato a una sorta di esilio in patria, a un rogo di natura simbolica”. Quante volte, si chiede Martinelli nel suo appassionante libro “Nel nome di Dante “ (Ponte alle Grazie, pag. 134-135), i versi di Majakovskij “prendono di petto Dio, come un’ossessione”.

 

“Ascoltate!

Se accendono le stelle

significa che qualcuno ne ha bisogno

significa che qualcuno vuole che ci siano

significa che qualcuno chiama perle

questi piccoli sputi!

(Vladimir Majakowskij, 1914)

Una delle statue “parlanti” dentro la Loggia lombardesca dietro il Mar di Ravenna scena del “Paradiso”(foto di Silvia Lelli)

 

 

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