Turismo
Viaggio in Valtellina, dove la crisi più importante non è quella di governo
VALTELLINA – Quanto è lontana la Valtellina da Roma? Circa 700 chilometri, ma nei giorni di questa crisi di governo, incastrata nel cuore di una crisi sanitaria economica e sociale senza precedenti, sembrano tanti, tanti di più. La distanza la si misura fotograficamente – le fotografie che compongono questo viaggio sono tutte di Filippo Romano – passeggiando nel mezzo di borghi fatati, eppure vagamente spettrali, immersi nella neve. “Qui durante l’estate, o durante le vacanze di Natale, quando si poteva… ci sono 1500 abitanti. Ma i residenti sono un’ottantina in tutto”. Il quadro è questo un po’ dappertutto. Qualunque strada si imbocchi, si arriva in un centro abitato con vicino e attorno dei campi da sci. Ora il paese ha l’aspetto di un delizioso villaggio alpino fatto solo di baite. Ora, invece, gli appetiti dei milanesi ne hanno fatto un quartiere residenziale fatto di palazzine. Ma le finestre sono tutte chiuse, le saracinesche tutte abbassate. “Quest’anno ce n’era un sacco, di neve. Solo che…”. Già, solo che. Un viaggio lungo i due lati della Valtellina, in questi giorni, in queste settimane, è un viaggio tra seconde case vuote, e destinate ad aprire molto meno del solito, tra zone rosse sempre incombenti, e piste chiuse. “Aprire a metà febbraio? Mah. Anche ammesso che sarà davvero consentito, è davvero improbabile che succeda”. Qualcuno sottolinea il rischio dell’impennata epidemica. In molti evidenziano la poca convenienza di aprire per una stagione di un mese scarso. Ma sul fatto che gli impianti non riapriranno, al momento, in valle girano pochi dubbi.
“Ma nelle zone montane il rischio è ancora più radicale”, ragiona Anna Giorgi, docente universitaria, anima di Unimont, sezione dedicata alla montagna dell’Università Statale di Milano e distaccata a Edolo, proprio in fondo alla Valtellina, dova la Lombardia inclina verso il Trentino. “Il rischio qui è che non riapra più niente, nemmeno a pandemia completamente finita. Pensiamo alla ristorazione, come paradigma di una situazione davvero grave. Qui il delivery e l’asporto sono molto più problematici che in città, da un lato. E dall’altro, l’assenza di turisti per tutta la stagione invernale finisce con il chiudere il canale principale di mercato per queste attività”. Quante attività resisteranno? E per quanto tempo possono resistere, senza visitatori? Ripartire, quando si potrà, sarà insomma complicatissimo: sempre che sia possibile.
Fa impressione, quando decidiamo per una pausa strategica lungo la salita verso la Valle, trovare aperto il bar-ristorante che sta a Barzio, ai piedi della funivia dei Piani di Bobbio. Provincia di Lecco, in Valsassina, la stazione sciistica più vicina a Milano. Storicamente presa d’assalto nei fine settimana. Di solito, in alta stagione, per parcheggiare bisogna mettersi comodi a due, tre, quattro km dalla funivia, e poi aspettare. Aspettare la navetta che porta alla funivia che, a sua volta, porta ai piani dove si scia. Invece, ovviamente, oggi per parcheggiare c’è proprio tutto lo spazio che serve, a perdita d’occhio.
“Noi abbiamo riaperto perché eravamo stufi di stare a casa… è vero durante la settimana, a parte gli operai che sono qui per fare dei lavori, non c’è proprio nessuno. Ma la domenica qualcuno viene ad affittare le ciaspole per camminare nella neve. Poca roba, sia chiaro, ma è già qualcuno, meglio che niente”.
Già, pochi scontrini e pochi ospiti sono meglio che niente. Naturalmente, il gioco deve valere la candela, per quanto piccola sia. È la stessa aria che si respira nelle poche attività turistiche aperte a Morbegno. Storico “imbocco della valle” lungo la strada che porta a Sondrio, di lì si diramano tutte le strade che portano in ogni angolo della Valle. L’albergo che ci ospita, ad esempio, è uno dei pochissimi che ha deciso di rimanere aperto. La famiglia e l’impresa, in quelle stanze per viaggiatori spartani simili anche per posizione ai Motel americani, coincidono. Cenano nella stessa stanza degli ospiti, e quando finisce la giornata salgono al piano superiore a dormire. In questi casi tenere aperto o chiuso ha circa gli stessi costi e così i pochi ospiti che devono soggiornare a Morbegno trovano un letto. Ad alberghi chiusi, comunque, gli ospiti sono in tutto quattro, noi compresi. Gli altri due sono operai del sud, impegnati in un cantiere poco lontano. Il totale fa 4 camere occupate, su una cinquantina.
Oltre agli italiani, proprietari delle seconde case e frequentatori più o meno saltuari delle valli mancano del tutto, ovviamente, gli stranieri, che negli ultimi anni avevano costituito un bacino turistico importante soprattutto in inverno. “I russi, i belgi, che negli scorsi anni riempivano le piste e gli alberghi per tutta la stagione quest’anno non ci sono. Torneranno, se e quando si potrà?”. Se lo chiede, mentre sorseggiamo un bombardino bollente, Giuseppe della Rodolfa, guida alpina, gestore di rifugio, operatore del turismo in zona da oltre trent’anni. Con lui e Giorgio Nana, sindacalista Cgil nel settore degli operatori delle funivie, chiacchieriamo a bordo della pista di sci di fondo di Lanzada, il paese accanto Chiesa in Val Malenco. Tra i pochi sport invernali che si possono fare, e che infatti si fanno. La pista, all’imbrunire, è popolata di ragazzi della scuola di sci della Valmalenco, una valle laterale della Valtellina che è stata tra le prima a sfruttare lo sviluppo dello sci di massa, ad avere una funivia moderna, e che oggi – secondo una tendenza che già si stava radicando prima del Covid, e che dopo ovviamente risulterà accelerata – vede messo in discussione un modello di sviluppo troppo centrato sullo sci alpino. “Poco lontano da qui” racconta Nana “hanno chiuso gli impianti di Caspoggio, una località che è stata molto molto importante. Per capirci, si allenava qui la valanga azzurra di Thoeni e Gross, tanto le piste erano importanti”. Un grande passato che non è bastato a garantire il futuro. “Alla fine siamo un po’ in ritardo” gli fa eco Della Rodolfa “nel pensare che lo sci alpino non basta. Il Covid ci obbliga a ripensarci, cosa che era evidentemente necessaria già da prima. Ora rischiamo di dover inseguire quello che sulle montagne svizzere, a pochi chilometri da qui, si fa già da anni”. Il pensiero va alle offerte di turismo alternativo, l’escursionismo per famiglie, i percorsi dedicati per centinaia di chilometri alle biciclette, ad esempio. “Bisognerebbe sforzarsi di cercare quello che sarà di moda tra dieci anni, non quello che altrove ha preso piede dieci anni fa”. Una cosa è certa: la monocultura turistica crea un problema di sostenibilità nel lungo periodo. Mentre ascolto mi tornano in mente le parole di Anna Giorgi, la professoressa di Unimont che parlava di necessità di “capitalizzare il Covid, utilizzando cultura e fantasia per utilizzare le risorse meglio che si può, consumandole meno che si può”.
Ma quando si ripartirà, secondo voi, è pensabile davvero a un approccio più responsabile e lento alle nostre montagne?
“Se ci basiamo su quello che abbiamo visto quest’estate, forse no… di colpo le valli invase, la coda lungo le ferrate, l’assalto ai rifugi da persone che non conoscono minimamente i codici della montagna”. Trovare un equilibrio però non è facile, anzi. Perché il sogno è avere un turismo distribuito su tutto il territorio e su tutto l’anno. Ma la fame, dopo uno (o due) anni di vacche magrissime, crescerà, comprensibilmente. “L’estate scorsa almeno ci ha dato un po’ di respiro” dice Laura Sala, commerciante ed ex presidente dell’associazione locale del commercio di Bormio. Ma sulla capacità della Valle di attrarre visitatori resta molto da fare, anche “in tempo di pace”. “Siamo seduti su una fortuna in termini di luoghi, cultura, enogastronomia. Potremmo fare molto di più, e senza impattare negativamente sul territorio. Ma ci servono fantasia e umiltà. Fantasia per immaginare qualcosa di nuovo e diverso. Umiltà per ammettere che non tutto è perfetto nella nostra offerta, e che qualcosa di meglio si può fare, anche imparando da altri territori ed esperienze”.
Servirebbe uno sguardo diverso, laterale, coraggioso, tecnicamente “ribelle”. Per guardare da vicino una storia significativa, quella dello Storico Ribelle, bisogna salire in Val Gerola, lato orobico della Valtellina. “Il lato retico è quello dei vini, il lato orobico quello dei formaggi” sintetizza Carlo Mazzoleni, 30 anni, laurea a Bologna in storia contemporanea, nativo delle valli e qui ritornato per trasformare la sua passione per la montagna nel suo lavoro, nella sua vita. Anche lui ha fatto per anni la vita aspra e piena di chi gestisce i rifugi, e oggi si dedica a tempo pieno allo “Storico Ribelle”. Non è il nome di un circolo anarchico, ma di un’esperienza di autonomia e coraggio nel fare un formaggio. Anzi, da queste parti, IL formaggio, cioè il Bitto. In mezzo a un villaggio di case di pietra, Gerola Alta, con la neve che pesa sui tetti copiosa, Carlo ci racconta la storia di un presidio produttivo e culturale che deve tantissimo all’intuizione del fondatore, Paolo Ciapparelli.
“Le vedi le forme che abbiamo in cantina? Sono tutte diverse, per altezza, colore, consistenza… e se le apri la differenza la vedi meglio”. Già, proprio queste diversità sono diventate un problema. Una ragione per omogeneizzare tutto. Così il Bitto è diventato uno solo, perfetto, sempre uguale a se stesso, e questo capolavoro artigiano della Valle, ha dovuto cercare il suo nome e la sua strada: nasce così, dunque, lo “Storico Ribelle”. Alcune decine di produttori locali decidono che loro non ci stanno, non aderiscono al Consorzio del Bitto e continuano a produrre la loro meraviglia imperfetta, facendo pascolare le mucche solo all’aperto, usando sempre anche latte di capra, attendendo pazienti che il loro bestiamo faccia i litri di latte che può, non quelli che servono.
Nella cantina questo formaggio per amatori invecchia, accudito come fosse un puledro. Proprio mentre aspettiamo di incontrare Carlo arriva un cliente che prenota la sua forma. Anzi, la sceglie. E poi l’affida alle cure di Carlo. “La cura è quotidiana, regolare. Le forme vanno girate, raschiate, in qualche modo allevate”. Molte portano nomi propri e date, occasioni in cui sono diventate un regalo. Alcune hanno anni di invecchiamento già sulle spalle. Altre, addirittura decenni. Un investimento per chi le ha comprate o regalate. Capitale paziente che attende di restituire in sapore e piacere quanto ha ricevuto da chi ha investito, anni prima, per mangiare questa prelibatezza, un giorno. Le forme sono il frutto del lavoro di diversi alpeggi, ognuno fa il suo, ognuno rispetta una sapienza antica e non omologabile che risale lungo il corso dei secoli, fino a quando questo formaggio veniva atteso come una benedizione di là dall’Adda, nel confinante stato della Repubblica di Venezia.
La “lotta” tra il Bitto, il marchio DOP spinto dalle istituzioni per farlo diventare un business nazionale e internazionale industriale, e lo Storico Ribelle è la tensione tra la spinta a diventare industria di massa – costi quel che costi, “magari allevando intensivamente vacche che a tre anni non si reggono in piedi e che non mangiano erba, perché non l’hanno mai mangiata” – e il rimanere sé stessi, rispettare la propria storia, la propria capacità, e il proprio territorio. In fondo, la pandemia che ha tagliato le gambe a tante vite, e a questa corsa, ha riportato tutti alla propria nudità iniziale. Ha ridetto a ciascuno di noi che un evento traumatico può obbligarci, anche oggi, a vivere come faceva chi è venuto molto prima di noi.
Anna Giorgi, che ci ha accompagnato dall’inizio di questo viaggio, fa notare “che sempre di più i giovani vogliono tornare o venire a vivere quassù. E sempre più spesso si registrano delle belle sorprese, sia in termini di successo delle imprese sia in termini di interesse e partecipazioni delle popolazioni locali a eventi culturali e sociali intelligenti”. Nei “comuni polvere”, quelli che hanno meno di 5000 abitanti, vive la stragrande maggioranza degli italiani. La Valtellina lontana da Roma, e in fondo anche da Milano, è una fotografia precisa di un paese fatto così. Guardiamola, prima che sia troppo tardi. A Milano, dove molti pensano che sia solo un bel posto per andare a sciare. E a Roma dove, tra una crisi e l’altra, il paese normale è sempre più lontano. Altro che settecento chilometri.
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