Partiti e politici

La vittoria in scioltezza di Giorgia, in un paese fermo al 25 settembre

13 Febbraio 2023

Un paese congelato, anche nelle sue regioni più importanti. Un paese nel quale il disinteresse per la partecipazione democratica è evidente eppure non nuovo, ma non cambia gli equilibri elettorali cristallizzati sui territori: con il centrodestra di Giorgia Meloni che vince nel Lazio e in Lombardia seguendo proporzioni uguali a quelle già viste all’opera. Almeno prendendo a paragone le ultime elezioni politiche, e non quelle – ormai remotissime – delle regionali del 2018. I risultati ci consegnano dunque all’analisi alcuni dati oggettivi, e diversi spunti di riflessione meno netti, ma non per questo meno utili al prossimo futuro.

La bassa affluenza, pari al 41% in Lombardia e addirittura al 37% nel Lazio, dovrebbe essere il punto da cui iniziare ogni analisi. Non necessariamente per stracciarsi le vesti. È del tutto chiaro che, in un tempo sempre meno politicizzato e globalmente propenso alla partecipazione democratica, le elezioni di un ente “freddo” e per definizione burocratico come la regione sono le più adatte a registrare tassi record di astensione. Anche dopo una pandemia che ha messo sotto stress i sistemi sanitari regionali, e quello lombardo in particolare? Sì, anche dopo una pandemia: perchè la mente umana le tragedie e le difficoltà prova sempre a rimuoverle, appena si può. Non è neppure vero che siamo di fronte a un record, se si pensa che le regionali emiliano-romagnole del 2015, che elessero per la prima volta Stefano Bonaccini come presidente, videro un’affluenza addirittura inferiore al 38%. Tuttavia, è interessante registrare questa distanza dalla pratica democratico-elettorale vista nelle due regioni che hanno per capoluogo la Capitale e la seconda città italiana. Un segnale politico di sostanziale indifferenza all’ipotesi di cambiamento, in due regioni simboliche e centrali per il potere economico e politico. Un (non) voto che dice – quantomeno – che quel che sta succedendo a livello nazionale non riesce ad animare particolarmente i cittadini, e in particolare gli oppositori di Giorgia Meloni. Lo studio dei flussi arriverà nelle prossime ore, ma sembra piuttosto chiaro che l’astensione si distribuisce in maniera analoga, proporzionalmente, in tutti i campi della contesa.

La presidente del Consiglio, con la sua navigazione sostanzialmente obbediente a Europa e mercati, sta quindi per il momento vincendo la propria scommessa. Al di là di qualche modesta polemica simbolica su Sanremo e i rave party, se non ci fosse Nonno Silvio che ogni tanto fa casino, gli italiani di questo governo e di chi lo presiede manco si accorgerebbero. È un equilibrio che può durare? Chi lo sa. Ma è in questo modo che Meloni arriva viva e vegeta al primo test elettorale, e nei piccoli numeri di questo voto ne spicca uno che resta grosso: quello dell’egemonia di Fratelli d’Italia all’interno della coalizione di destra. Il partito della premier vale a questo giro circa il doppio della Lega, e già si era visto qualcosa di simile alla politiche. Quel che emerge con nuova forza è invece la lenta ma continua emorragia di Forza Italia. Senza quel poco di classe dirigente che ha costruito in un trentennio, che sta finendo di emigrare verso terre più provvide di futuro, e senza più il carisma fondativo di Berlusconi, al partito che è stato egemone per un’epoca che sembrava infinita restano i voti di un pugno di vecchi, che già nel 1994 giovani non erano più. A questo turno elettorale, in realtà, il partito di Berlusconi tiene: ma il destino è segnato, e il futuro non esiste. Fratelli d’Italia sembra dunque assumere la posizione e le dimensioni che furono quelle di Forza Italia, con la Lega nazionalista ma senza bussola nuovamente aggrappata ai fortini del nord. Può reggere la baracca? Per il momento sì, che comandare è sempre meglio che non farlo. Ma Giorgia sa meglio di tutti che quel che resta di Matteo e Silvio sono un problema, più che una risorsa, per il governo nel quale sono tutti alleati. Meglio quindi non aver stravinto, a questo giro, anche se il problema – tutto interno – si riproporrà.

Mentre Atene ride con un ghigno, la Sparta dell’opposizione piange a dirotto. In modo diverso, ma Lombardia e Lazio sono sconfitte violente, evidenti, senza appello. In un contesto fatto di freddo e di passioni tristi, appunto, le tre opposizioni hanno deciso di non provare nemmeno a vincere, scegliendo – o subendo – uno schema di gioco incomprensibile a chiunque.  Le alleanze variabili del Pd – con i 5 Stelle in Lombardia dove da sempre sono marginali, e contro di loro nel Lazio dove storicamente hanno più voti – hanno prodotto due vittorie senza sforzo del centrodestra, e due sconfitte di pigrizia in chi fa opposizione. Costruite, nel caso lombardo, su vulgate strampalate che volevano Letizia Moratti – prima sindaca di centrodestra perdente a Milano dopo quasi vent’anni di dominio berlusconiano – come una candidata in grado di far volare il terzo polo renziancalendiano. I molti milioni investiti in campagna elettorale non hanno prodotto nessuna differenza significativa rispetto agli esiti delle politiche, così come l’alleanza guidata da Majorino non ha spostato neanche di un decimale il risultato di Settembre.
Di buono c’è che la nettezza del risultato ci risparmierà la conta di dettaglio, che sempre si attiva per provare a rivendicare di aver almeno ottenuto una resa dignitosa. Per il resto, da domani si ritornerà a parlare del congresso del Pd. In quel caso, almeno, alla fine potrà ci sarà qualcuno che nel Pd potrà dire di aver vinto. Meglio di niente. O poco più di niente. Dipende sempre dai punti di vista.

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