Partiti e politici
Il congresso Pd è già iniziato in Parlamento. E senza Verdini Renzi è più forte
Il governo di Paolo Gentiloni parte più debole numericamente (169 voti a Palazzo Madama sono davvero pochi nell’ordinaria amministrazione), ma più forte politicamente. Non avere più l’infamante marchio di essere sostenuto da Denis Verdini rafforza il nuovo premier e lo stesso Matteo Renzi agli occhi del popolo della sinistra e della minoranza del Pd. I critici dell’ex rottamatore, infatti, avranno una freccia in meno nel loro arco. La debolezza di Gentiloni, semmai, è di aver presentato una squadra fotocopia. Un po’ di discontinuità in più non avrebbe guastato. “Continuiamo a cliccare F5 sul sito del governo ma la lista dei ministri non si aggiorna”, era la battuta ‘made in Spinoza’ più citata nei due giorni di fiducie parlamentari. Ore in cui, nel Transatlantico di Montecitorio e nella Sala Garibaldi del Senato, si sono rivisti i crocicchi tipici della Prima Repubblica, con deputati e senatori assemblati in riunioni improvvisate intorno a un tavolino o un divanetto. “Mattarella ha consigliato a Gentiloni di allargare la maggioranza, ma lui, poverino, non ha capito e l’ha ristretta”, sussurrava sorridendo Lucio Barani, senatore di Ala sempre col garofano socialista all’occhiello.
Il problema di Verdini, ora, è quello di tenere uniti i suoi. Mercoledì mattina, in un’infuocata riunione prima della fiducia a Palazzo Madama, tra i 18 senatori fioccavano i distinguo. “Se qualcuno mi offre un posto di sottogoverno, io ci vado. Perché qui tu ti salvi, ma noi che facciamo?”, si è sfogato un verdiniano di fronte a Denis. Il quale, nonostante qualche gossip racconti che faccia tutto parte di un accordo con Renzi in vista del voto, in realtà ci è rimasto male. “Ha quasi sofferto più per il divorzio da Renzi che per quello da Berlusconi”, racconta un deputato di Ala spennellando un affresco dello scontento verdiniano in queste ore. Comunque il segnale di uscire dall’Aula sul voto di fiducia è importante: significa che Ala più Scelta civica sono pronti alla trattativa e decideranno di volta in volta il da farsi. In Aula e in commissione in Senato saranno spesso assenti, così da abbassare il quorum. In ballo, naturalmente, non ci sono solo i posti di sottogoverno (verranno presentati lunedì) su cui Ala difficilmente toccherà palla, ma le nomine di primavera di enti pubblici e partecipate: un posto qui, una poltroncina di là e passa la paura.
Più interessante, invece, sarà vedere se Gentiloni si terrà a Palazzo Chigi, insieme alla Boschi, pure l’apparato politico-amministrativo dell’ex rottamatore: Antonella Manzione, Paolo Aquilanti, Tommaso Nannicini, solo per citarne qualcuno. Filippo Sensi è rimasto, gli altri chissà.
La vera partita, naturalmente, si posta sul Pd. Tra i parlamentari dem, di fronte alla nascita del nuovo governo, si registravano due scuole di pensiero: chi ritiene che “bisogna andare al più presto al voto perché più passa il tempo e più regaliamo voti a Grillo” (Giacomo Portas) e chi invece sostiene che “occorre mettere un po’ di tempo tra le Politiche e il referendum, magari azzeccando qualche buona legge, perché dobbiamo recuperare consensi” (Chiara Gribaudo).
La voce dal sen fuggita di Giuliano Poletti – “bisogna votare prima che si tenga il referendum della Cgil” – dice molto su quanto a Renzi importi del partito. In tal senso il segretario sembra non aver imparato nulla della batosta referendaria, pensando di continuare a usare il Pd come un treno veloce per Palazzo Chigi. Niente di più sbagliato. Qualcosa si capirà di più dopo l’assemblea di domenica. Ma, dando per buono che si facciano prima primarie e congresso e solo dopo si vada al voto, qui la partita è gustosissima. Se da una parte iniziano a fioccare i nomi di possibili candidati alternativi a Renzi (gli unici ufficiali al momento sono i governatori Michele Emiliano ed Enrico Rossi), la minoranza comincia a tastare il terreno al centro. L’unica speranza di Bersani & C. di sconfiggere l’ex sindaco fiorentino, infatti, è lavorare a un candidato unitario con Area dem, il corpaccione centrale guidato da Dario Franceschini che racchiude in sé la maggioranza degli ex margheritini. Ma anche il ministro dei Beni culturali, se si convince di disarcionare Renzi, avrà bisogno di giovani turchi e bersaniani. In tal senso i nomi che potrebbero mettere d’accordo centro e sinistra del Pd sono Nicola Zingaretti ed Enrico Letta. Tutti gli altri – Speranza, Emiliano, Rossi, Cuperlo – sarebbero espressione di una parte minoritaria destinata a una battaglia di semplice rappresentanza. Ma che farà Franceschini? Deciderà di continuare l’alleanza con Renzi o lo scaricherà? E’ presto per dirlo. Ed è anche per questo che Renzi vuole spingere sul pedale dell’acceleratore per andare al voto in primavera: per non dare tempo ai suoi avversarsi di organizzarsi. Oltre, naturalmente, ad evitare il referendum cigiellino: perdere una nuova consultazione su provvedimenti centrali del suo governo come Job Act e voucher, infatti, significherebbe l’epitaffio finale del renzismo.
Ma tra Renzi e Palazzo Chigi ci potrebbe essere un altro intoppo: se si faranno primarie di coalizione, per esempio, in campo potrebbero esserci pure Giuliano Pisapia – che qualche giorno fa ha lanciato la proposta di un “campo democratico” alla sinistra del Pd –, ma pure Laura Boldrini. La quale giovedì mattina, allo scambio di auguri con i cronisti parlamentari, non ha escluso la possibilità. “Ne riparleremo quando sarà il momento opportuno…”, ha detto la presidente della Camera. Per l’ex rottamatore, dunque, s’avanzano competitor a sinistra. Sempre che a Renzi non venga la tentazione di strappare: uscire dal Pd e fare un suo partito. Ipotesi ancora assai lontana.
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