Vi racconto la mia Barcellona, colpita ma non affondata dal terrorismo
Hanno colpito la mia città, dove ho scelto di vivere per caso, passandoci con un volo low-cost, un caldo pomeriggio di febbraio di tredici anni fa. Barcellona, si sa, è una bruja, una strega capace di incantarti e tenerti con sé. Ero lì, il giorno della tragedia, il 17 agosto, quando alle cinque del pomeriggio, ho visto quel furgone bianco colorare di sangue la Rambla de Canaletes e poi fermarsi sul mosaico di Joan Mirò. Canaletes è un tratto di strada pedonale coi controviali alberati di bellissimi olmi. Scende a passo di viandante verso la statua di Cristoforo Colombo, cambiando a tratti, il nome, ma rimanendo sempre “ramala”, parola araba che significa “fiume”. Le sue mattonelle sono calcate da milioni di turisti, quel giorno ce ne erano a centinaia. Canaletes è una fontana del XIX secolo, un piccolo capolavoro del Modernismo catalano che ruba all’Art Noveu. Ha i becchi d’ottone rivolti verso il basso e la leggenda dice che se si bevono piccoli sorsi d’acqua di quell’acqua magica, allora si è destinati a tornare. Per sempre. Ora, con molta ingenuità, dopo avere visto decine di corpi gettati come manichini a pezzi per terra, se i terroristi che hanno portato qui la morte, avessero visto la vera bellezza di questa città, magari insegnata da qualcuno che non fosse un imam radicalizzato e pieno di odio, avrebbero rinunciato al loro gesto così vigliacco e crudele?
Quando scrivo questi appunti, post tragedia, sento ancora l’eco delle sirene, delle urla, dello stridore delle ruote sulle persone. E vedo una tremenda sequenza d’immagini che nessuno merita di guardare. Non voglio scrivere ciò che ho visto, per rispetto di quei corpi inermi, per rispetto dei tanti gesti di solidarietà che mi sono entrati nel cuore e hanno acceso una luce di speranza per tornare a non avere paura. Perché vivere, in qualsiasi parte del mondo, è sempre un atto di coraggio.
Ho sempre creduto che la seconda città di Spagna, capitale dell’irrequieta e moderna Catalogna, sia una fattucchiera ammaliante e dispettosa. Da secoli. Anche ora che è più una leonessa che, con molta dignità, si lecca le sue ferite senza versare una sola lacrima per sé. Se non per le quindici vittime che nelle sue strade piene di gioia, hanno perso la vita per mano della follia integralista. Ma Barcellona compie sempre un sortilegio, trasforma la vita di chi la visita, trasforma il suo volto ed facile innamorarsene. Ha cambiato molte facce, dalla fine del Franchismo, ha assunto il volto di un luogo moderno, ricco di possibilità, aperto a tutti. Un ponte tra la vecchia e la nuova Spagna che qui è meglio considerare Catalogna, anche se poi i numeri ci dicono che, la secessione da Madrid, la vogliono sempre meno persone: soltanto un 41%, mentre oltre il 70% vorrebbe più autonomia.
Ma qui non voglio parlare di politica, poi quella catalana è talmente complicata e razionale, che la nostra sembra più comprensibile come le istruzioni del Lego. Vi voglio raccontare come sta reagendo la città, come ha reagito, quando il giorno dopo gli attentati, quando il sanguinario terrorista Younes Abouyaaquoub era ancora in fuga, i barcellonesi, quelli veri, quelli adottati, italiani, egiziani, francesi, tedeschi, hanno urlato “Io non ho paura”, pur mentendo.
La paura è rimasta. Lo si vede negli occhi delle persone, nei loro gesti. Ma da quello smarrimento, da quella paura, ho visto sorgere una voglia antica di solidarietà. Dalle 17 di giovedì 16 agosto la città si è rimboccata le maniche, si è messa disposizione di tutti. I taxi, solitamente considerati dei rapinatori di turisti, hanno offerto gratuitamente fino al mattino successivo le loro corse, hanno accompagnato i feriti fino alla soglia del Pronto soccorso, prima che arrivassero le ambulanze. Con i miei occhi ho visto i bar accogliere i turisti spaventati come agnellini, mentre l’aria era rotta dalle urla disperate delle vittime e dei colpi di pistola. Gli hotel hanno aperto le hall, hanno accolto chi cercava un parente o un amico disperso nel massacro. I ristoranti hanno offerto i pasti, tutti hanno dato qualcosa. Ho visto una signora anziana, in ciabatte, aprire il portone della sua casa sulla Rambla, per fare entrare un gruppetto di studenti dodicenni, risparmiato dalla furia del van assassino. L’ho immaginata come una nonna dal cuore d’oro che offriva una carezza e un bicchiere d’acqua a quei suoi nipoti spaventati e fino a pochi istanti sconosciuti.
Sono queste le immagini che voglio portare nel cuore, che voglio tirare fuori dai cassetti della mente, come vecchie lettere d’amore, da rileggere, ogni tanto. Sono le voci dei paramedici, gentili e ferme, che incitavano i feriti a reagire, ad aprire gli occhi, a respirare, a riacciuffarsi la vita, con le mani insanguinate e i denti dolenti. Sono le parole piene di dolcezza di una madre inglese che consolava il figlio di cinque anni. Sono le parole, piene di cordoglio, di un tassista che, ieri, a notte fonda, mentre mi portava a casa, mi ha detto: «So che c’è stato un nuovo terremoto in Italia, mi dispiace per i morti, ma ho visto le immagini dei fratellini estratti dalle macerie, sono salvi. Mi si è scaldato il cuore». Anche a me, mentre guardo Barcellona che si veste di luci notturne e fluorescenti.
Roberto Pellegrino
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