Borg-McEnroe, la partita perfetta è diventata un film imperfetto
Non fu una finale di tennis. Fu un concerto rock. Lo svedese, l’orso, l’uomo che aveva artificiosamente deciso di tarpare le proprie emozioni, il campione. Contro l’americano, l’intemperante, figlio di militare, nato per sbaglio in Germania, il bambino che – ci mostra il film – sapeva fare moltiplicazioni a più cifre. Lo sfidante. Che disegnava il tabellone del torneo sulla parete della stanza d’albergo. Che rubava la cavigliera all’amico John Fleming per renderlo innocuo nei quarti di finale. E mangiava hamburger col ketchup sul letto.
La disciplina contro la sregolatezza. Che poi, per dirla alla Fossati, così disciplina non sono mai. Perché quel rovescio a due mani, da fondo campo, era rivoluzionario; figlio dell’hockey su ghiaccio. La sistematicità, presunta sistematicità, contro la fantasia ribelle di quel ventenne che batteva disegnando sempre un arco dorsale, che toccava la palla come si carezza un figlio. Che qualche anno prima, ancora più capellone, serviva quasi dal corridoio di doppio. Non c’era Internet, si aspettava il Mercoledì sport per rubare qualche immagine del beat tennistico che stava entusiasmando New York City.
Quella partita, sul Centrale di Wimbledon, è un inno agli anni Ottanta. Come lo è stato “Video killed the radio star” dei Buggles. Il mondo si fermò per quella partita. Quel che il mondo non conosceva è la finzione di Borg. Un compresso, non un serafico. Non era uno Stenmark, né tantomeno un Gustav Thoeni. Un ex ragazzo ribelle che aveva imparato a controllare le proprie emozioni.
Il film, che in fin dei conti è un film su Borg, lo mostra chiaramente. Bjorn era un bambino intemperante, nervoso, che sfasciava racchette in campo e si allenava contro un muro sotto casa. Il circolo dove giocava, aveva deciso di allontanarlo. «Il tennis non è uno sport per tutti i ceti sociali», disse il direttore alla madre di Bjorn. Il ragazzo venne salvato da Bergelin l’allenatore della sua vita, che lo fece esordire a 15 anni in Coppa Davis. E ovviamente Bjorn vinse.
Si dice di tanti film. Questo film, però, è anche un’occasione mancata. È un ibrido, non sceglie cosa essere. Cerca di imitare Rush l’opera che raccontò la sfida tra Niki Lauda e James Hunt nel Mondiale di Formula Uno del 1977. Ne copia anche l’incontro all’aeroporto. Il regista Janus Metz si affida a due attori. Sverri Gudnason è impressionante per quanto somigli allo svedese. McEnroe invece non conosce sosia: non ha simili nel mondo. Non è colpa del povero Shia LaBeouf.
Il film è interessante nel recupero delle radici di Borg. Se avesse intervallato la finale con immagini reali, sarebbe stato decisamente meglio. Così come il regista avrebbe beneficiato della lettura de “La grammatica del bianco” romanzo di Angelo Carotenuto ambientato in quella partita.
Borg-McEnroe a Wimbledon, anno 1980, è stato un rito iniziatico. Da inserire nei libri di storia. È la storia di un uomo condannato a vincere. “Pensa solo al punto successivo”. Fu questo insegnamento dell’allenatore Bergelin – unico svedese, prima di Borg a raggiungere tre volte i quarti di finale a Wimbledon – a consentire a Bjorn di non mettersi a piangere dopo aver perso il tie-break più famoso della storia del tennis. Sette match-point annullati da parte del moccioso di New York City.
“Deve vincere sempre, altrimenti è finita”, disse Bergelin alla futura moglie Simionescu prima della finale. Aveva ragione. Borg quel giorno trionfò, si inginocchiò per la quinta volta consecutiva davanti alla duchessa di Kent e capì che il suo tempo era finito. Perse lo scettro l’anno successivo – questo il film non lo mostra – e si ritirò, a soli 26 anni. McEnroe proseguì altri quattro anni. Raggiunse la perfezione ma non volle imitare Icaro. Decise di non entrare nella Storia, buttò una finale sulla terra rossa di Parigi contro Ivan Lendl il cecoslovacco che tradì per il capitalismo. All’epoca sembrava un comprimario, oggi sarebbe un divo mondiale.
Non vi alzate prima che si accendano le luci. Le foto d’epoca che si alternano, valgono il prezzo del biglietto. È come andare al Museo. Peccato che il film non sia un’opera d’arte.
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