Tecnologia

2015: l’anno in cui la pirateria fu sconfitta (anche grazie a Netflix)

21 Ottobre 2015

La fotografia non ha ucciso la pittura, il cinema non ha ucciso il teatro, la televisione non ha ucciso il cinema e, a quanto pare, la pirateria digitale non ha ucciso nessuna delle forme d’arte che si temeva soccombessero sotto la scure della gratuità, garantita da una marea di siti e piattaforme più o meno illegali che dal 1999, anno di nascita di Napster, hanno invaso internet.
E questo nonostante l’industria musicale e cinematografica, non senza ragioni, abbia lanciato innumerevoli grida disperate contro la sempre più diffusa abitudine di scaricare illegalmente album e film. I dati che la Riia (Recording industry association of America) ha fatto circolare davano il quadro di quanto stesse avvenendo: dal 1999 gli introiti dell’industria musicale sono crollati del 50%, a causa di Napster, Torrent e tutti i sistemi di filesharing e peer to peer che si sono susseguiti.

Ma è davvero tutta colpa della pirateria? In buona parte, non c’è dubbio, la risposta è positiva. Nessuno ha però mai calcolato quanti “danni” abbia fatto all’industria musicale iTunes, che ha portato alla riscoperta dei brani singoli dove ormai esistevano quasi solo gli album interi. È difficile quantificare la perdita causata dal ritorno al successo dei singoli (con i suoi bassi margini di guadagno), ma si può immaginare che non sia stato un fattore irrilevante.
Certo, per l’industria è stato molto più comodo addossare tutte le colpe alla pirateria – che è comunque sicuramente la prima causa del crollo dei fatturati – così come non può essere interesse dell’industria ricordare che la pirateria è sempre esistita (duplicazione di cassette e masterizzazione di cd, anche se con la grossa differenza che almeno una copia qualcuno la doveva comprare) e nemmeno sottolineare l’aspetto positivo della pirateria digitale: aver consentito una diffusione della cultura impensabile fino a poco fa.
Non si può tralasciare, in nome del business, il fatto che chiunque fosse appassionato di cinema si sia trovato, da un giorno all’altro, ad avere la possibilità di farsi una cultura cinematografica immensa, illimitata, reperendo opere che da Blockbuster – che aveva invece causato la chiusura di tantissime videoteche piccole e specializzate – non si trovavano nemmeno frugando negli angoli più reconditi.
Si è sempre voluto sottolineare come la pirateria desse luogo a una fruizione distratta, fatta più di quantità che di qualità, che riguardasse solo i film da botteghino; senza che nessuno si prendesse la briga di dare valore al fatto che, grazie a pirati “devoti” alla diffusione della cultura, nell’epoca di internet e della banda larga fosse possibile scaricare in pochi clic capolavori di ogni epoca ormai irreperibili su un mercato legato solo alle ultime novità. Il che non significa che la pirateria sia un bene in senso assoluto, ma solo che alcuni aspetti positivi non si possono tralasciare come se niente fosse.
Tra questi aspetti positivi, va citato anche il fatto che il terrore che Torrent e affini mettessero in ginocchio l’industria ha costretto quest’ultima a darsi una mossa. Giganti inamovibili hanno infine dovuto capire – ma il processo è ancora in corso – che più che provare (inutilmente) a reprimere la pirateria era il caso di approfittare delle innovazioni legali che intanto stavano spuntando come funghi. iTunes, ovviamente, ma ancor più Spotify o Netflix.

Finché si è lavorato solo sulla repressione, non si è ottenuto nessun effetto. Quando si è capito che – invece di sperare di vendere cd nell’epoca degli mp3 e dello streaming – si dovevano abbracciare le innovazioni, ecco che la pirateria ha iniziato a perdere colpi. E non può certo essere un caso.
I numeri, d’altra parte, sono chiarissimi. In Norvegia – una delle terre natie della pirateria – nel 2008  venivano scaricate illegalmente 1,2 miliardi di canzoni (dati Ipsos). Gà solo nel 2012 queste cifre erano crollate dell’80%, a 210 milioni. Per quanto riguarda il download illegale di film e serie tv, un rapporto di CHOICE dimostra come, questa volta in Australia, la percentuale di persone che scaricano illegalmente sia scesa dal 23% del novembre 2014 al 17% del settembre 2015. Cos’è successo in questi mesi? È stato lanciato Netflix nella terra dei canguri. Anche in Canada, il lancio di Netflix ha dimezzato la pirateria di film e serie tv.
Un altro valore “nascosto” della pirateria è stato invece reso noto proprio dal servizio che la sta mettendo in ginocchio: nel 2013 il responsabile delle acquisizione di Netflix, Kelly Merryman, ha ammesso di controllare i numeri delle serie tv più piratate prima di decidere quali acquistare. I pirati, quindi, diventano degli influencer per l’industria legale, uno strumento di marketing, un modo per capire cosa avrà successo nel mondo mainstream.

Allo stesso tempo, Netflix dimostra semplicemente come le alternative legali funzionano. Non si può pensare di restare all’età della pietra mentre il resto del mondo scopre lo spazio. Come scritto su TorrentFreak (uno dei siti principali per la diffusione di Torrent), “la pirateria digitale è in ginocchio da quando le alternative legali sanno fare il proprio dovere”.
E oggi Netflix arriva, nei primi giorni di ottobre, anche in Italia. Una delle nazioni più propense alla pirateria, come Spagna e Russia. Questa è, più di tanti numeri, la dimostrazione che le alternative legali funzionano. Per quanto invece riguarda i freddi dati, basta dare un’occhiata a quelli ufficiali: 60 milioni di abbonati a Netflix nel mondo (dati di aprile 2015), di cui 40 negli Usa. Il 36% delle case statunitensi ha accesso a Netflix e il 51% dei “millennials” statunitensi usa Netflix, ma la diffusione diventa sempre più capillare anche nel Vecchio Continente, con il Regno Unito come testa d’ariete.
Netflix, comunque, non ha salvato l’industria cinematografica. Per la semplice ragione che non ha mai avuto bisogno di essere salvata. Mentre si moltiplicavano gli allarmi sui danni causati da Torrent ed Emule, gli introiti globali del botteghino non facevano che crescere: dai 23 miliardi di dollari del 2005, ai 31,6 miliardi del 2010, fino ai 36,4 miliardi del 2014. Le previsioni sono che per il 2019 si sarà arrivati a circa 48 miliardi.

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Nell’epoca della pirateria, insomma, il botteghino ha fatto registrare incassi via via più consistenti. Gran parte di questa crescita, è la legittima obiezione, deriva dal boom del mercato cinese; ma se si vanno a vedere i numeri dei biglietti venduti negli Stati Uniti si scopre che nel 1995 erano 1,22 miliardi; nel 2005 sono saliti a 1,39 miliardi, nel 2015 le proiezioni parlano di 1,31 miliardi di biglietti venduti. La pirateria ha sicuramente colpito il mercato del dvd (problema che Netflix sta risolvendo), in compenso nessuno ha smesso di andare al cinema a causa di uTorrent.
Tutto bene, quindi? Più o meno, perché per un Netflix che semplifica la vita ai “millennials” – ormai dotati di qualche risorsa economica e soprattutto stufi di setacciare Torrent con il rischio di beccarsi dei virus o di trovarsi davanti a un porno invece che a una commedia romantica – c’è un Popcorn Time che sembra proprio essere l’evoluzione del Torrent nell’epoca di Netflix.

 

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Popcorn Time si basa su Torrent, ma permette di vedere i film “come se” fossero in streaming, con un’interfaccia grafica semplicissima da usare e una qualità audio/video senza rivali. Hanno già provato a buttarlo giù, ma ogni volta – come sempre quando si parla di pirateria – è risorto in versioni migliori e più efficaci. Popcorn Time, stando ai numeri di Wired Usa, fa registrare 100mila download di film e serie tv ogni singolo giorno, mentre il numero di utenti non è noto ma è sicuramente di diversi milioni di persone.
Il Netflix illegale causerà la morte del Netflix vero e proprio? Quasi impossibile, non fosse per la vastità superiore dell’offerta, il servizio comunque migliore e il fatto che tutti i film, su Netflix, funzionano; mentre su Popcorn Time bisogna sempre sperare che ci siano abbastanza utenti connessi a quel file, altrimenti il bollino diventa rosso e tanti saluti alla visione della prima serie di Game of Thrones per chi sta cercando di recuperare gli anni perduti.

Non sarà mai la repressione a sconfiggere la pirateria; ma solo l’innovazione – che per lunghissimo tempo è stata garantita solo dai pirati – e la qualità del servizio. Se se sono accorti anche i dinosauri dell’industria musicale, come stiamo per vedere, vuol dire che c’è speranza per tutti.
Anche nel caso della musica, infatti, le idee che oggi stanno salvando l’industria non sono certo arrivate da Sony, Universal e Warner; ma da iTunes e ancora più da Spotify (nato in Svezia, dove, guarda caso, è nato anche Pirate Bay, per lungo tempo la più celebre piattaforma pirata). Il risultato è che nel 2014, per la prima volta dopo circa 15 anni, le entrate globali dell’industria musicale hanno retto il colpo, restando sui 15 miliardi di dollari, sostanzialmente pari a quanto fatto registrare nel 2013.
Certo, si tratta di introiti dimezzati rispetto ai 28 miliardi del 1999, ma il segnale è importante e,  probabilmente, se si fossero spese più energie nell’innovazione e meno nella repressione le cose avrebbero ripreso a girare per il verso giusto qualche tempo prima. Insomma, l’industria discografica è stata fortemente ridimensionata nell’epoca post-Napster, ma si sta riprendendo. Grazie anche all’apporto sempre più importante della migliaia di piccole etichette indipendenti che stanno sorgendo grazie all’abbattimento dei costi di distribuzione (800 nel Regno Unito, 4mila in Europa, 8mila nel mondo), etichette che garantiscono una bella boccata d’ossigeno per la musica anche sotto il profilo qualitativo.

Internet non è più il nemico, è il migliore alleato delle etichette. E nonostante la pirateria informatica sia ancora una voce molto importante (secondo la Riia, 20 milioni di americani scaricano illegalmente, mentre solo 7,7 milioni hanno sottoscritto un abbonamento a pagamento) è sempre più evidente come sia soltanto una questione di tempo prima che il modello freemium di Spotify metta d’accordo tutti: se voglio ascoltare musica gratis, mi sorbirò un po’ di pubblicità (tanto più che, se si usa Spotify sul computer, basta scaricare una legalissima estensione “adsblock” e la pubblicità, come per magia, svanisce); altrimenti pago 10 euro al mese e in cambio ho anche una qualità migliore.
La tendenza è evidente: più lo streaming diventa la modalità base con cui si ascolta la musica, più la pirateria cala. Secondo i dati Ifpi (International Federation of the Phonographic Industry), non solo nel 2014 gli introiti della musica digitale hanno raggiunto quelli della musica fisica (46% a testa); ma lo streaming in abbonamento è cresciuto del 39%, mentre quello gratuito sostenuto dalla pubblicità è cresciuto del 38%.

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La parte del leone, ovviamente, la fa Spotify (ma ormai i competitor sono parecchi: Deezer, Apple Music, Tidal): 20 milioni di abbonati, 75 milioni di utenti, 3 miliardi di dollari girati fino a questo momento ai detentori dei diritti, più di 30 milioni di canzoni nel database.
Il download, invece, scende dell’8%. Un calo come minimo fisiologico visto il boom dello streaming, che fa anzi pensare che si stia assistendo a un consolidamento di questa forma legale di acquisto della musica; legata a chi vuole avere i file “fisicamente” nell’hard disk, senza essere troppo legato a internet e account.
L’industria musicale è stata costretta a innovarsi e ha smesso di perdere colpi, mentre gli introiti derivanti dal digitale sono passati dai 400 milioni di dollari del 2004 (quando la pirateria era già più che sviluppata) ai 6,9 miliardi dello scorso anno.
C’è ragione di essere ottimisti. La rivoluzione iniziata nel 1999 con Napster ha stravolto le industrie del cinema e della musica, ha fatto venire crisi di panico fin eccessive e scatenato la repressione; finché non ci si è accorti che la strada non passava dalla lotta senza esclusioni di colpi, ma dalla innovazione dei mezzi di distribuzione (e non solo). Un manipolo di hacker ha costretto multinazionali legate a un modello passato a entrare nel futuro. O qualcuno pensava davvero che avrebbe causato l’estinzione del cinema e della musica professionale?

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