Tecnologia
Intelligenza artificiale, 42 e Multivac: tutto sta nella domanda
Nella ricerca spasmodica di risposte rapide e di dati semplici e sintetici, “instagrammabili”, il rischio è perdere di vista la domanda e di riunciare all’approfondimento delle componenti che concorrono a un indice, finendo per costruire una narrativa non sempre ancorata al reale. Soprattutto con riferimento a tecnologie trasversali e complesse, come l’IA, accontentarsi di confrontare insiemi complessi e variegati, quali i sistemi produttivi nazionali che ne utilizzano una qualche declinazione, ignora la domanda sulla sua utilità caso per caso e crea solo un inutile senso di ritardo. In sintesi, gli indici aggregati sono solo la copertina di storie molto più interessanti.
Come esempio pratico ho scomposto il Digital Intensity Index della Commissione europea sia nelle sue diverse versioni, sia analizzando gli indicatori che lo compongono.
Questo articolo è una prima parte di un approfondimento che sarà poi dedicato a scomporre il dato sull’utilizzo dell’IA nelle imprese.
«”Quarantadue!” urlò Loonquawl. “Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?”
“Ho controllato molto approfonditamente,” disse il computer, “e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda”.»
Conosciamo l’ironia sottile di Douglas Adams in “Guida galattica per gli autostoppisti”: un gruppo di scienziati, proiezione di una razza di esseri super-intelligenti esistenti su un piano dimensionale superiore, costruisce un grande supercomputer per ottenere la risposta alla “Domanda Fondamentale sulla Vita, sull’Universo e Tutto quanto”. La risposta, “42”, lascia i suoi creatori perplessi e frustrati e viene deciso di creare un ulteriore supercomputer per formulare la domanda, prima della risposta. Questo secondo calcolatore, che incorpora entità viventi come parti della matrice computazionale, è il nostro pianeta.
Nell’era dell’intelligenza artificiale e del prompt engineering niente appare fondamentale come le domande che ci poniamo, dato che, apparentemente, le risposte emergono ormai con una latenza minima e una precisione sempre maggiore.
Inoltre, nell’interazione – o ormai interlocuzione – con processi statistici e stocastici e non deterministici, la domanda si pone due volte: la prima, per cercare di guidare l’IA nel fornirci l’output che cerchiamo; la seconda nel chiederci se quello che abbiamo ottenuto è corretto, senza allucinazioni e costruito sulla base di fonti affidabili.
Rimanendo sul numero due, anche la citazione di Adams porta quindi con sé due aspetti che caratterizzano l’attuale dibattito sull’IA e, in generale, sulla digitalizzazione. Entrambi attengono alla ricerca di misurare, sintetizzare e comunicare, attraverso un processo che (spesso, ma non sempre) origina da basi solide e strutturate ma che poi degenera nel suo utilizzo divulgativo.
Come già emerso in altri articoli sul tema, l’intelligenza artificiale appare oggi invasa da una “nebbia di marketing” sui suoi effetti – per parafrasare la “Nebel des Krieges” del generale Carl von Clausewitz –, dai “15 minuti di celebrità” di Andy Warhol e da quanto scriveva Oscar Wilde: “c’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé: è il non far parlare di sé”.
In sintesi: tutti (me compreso) ne dobbiamo parlare, fornire numeri, dati e proposte, idee e opinioni.
Questa deriva si amalgama con la velocità e la superficialità con cui i social network ci costringono spesso a operare, in una perversa necessità di costruire un titolo, più e prima di un contenuto.
Fortunatamente, a quanto già emerso nell’articolo dello scorso 10 aprile si contrappongono anche spinte contrarie, come un ritorno in auge delle newsletter di qualità e un sempre minor peso degli influencer generalisti.
Accanto a “42” è possibile affiancare un’altra risposta di un supercomputer, il Multivac di Isaac Asimov. Nel racconto “The Last Question”, alla domanda se sia possibile invertire la seconda legge della termodinamica, la macchina risponde sempre – fino all’ultima risposta che sarà diversa – di avere “dati insufficienti per una risposta significativa”.
Ponendo questi due estremi su di una linea, la maggior parte dei contributi sul tema appare collocarsi intorno a “Deep Thought”, il supercomputer di Adams, con poche – in termini relativi – eccezioni che orbitano intorno a Multivac. Fuor di metafora, appare spasmodica la ricerca in ogni report di un proprio indice, di un numero, di una sintesi che potremmo definire, se fosse una foto, “istagrammabile”, sull’utilizzo dell’IA, sul suo impatto o, parimenti, su altri aspetti del digitale.
Quel che otteniamo sono spesso dati contrastanti o che non vengono approfonditi.
Per fare un esempio concreto richiamo il Digital Intensity Index (DII) della Commissione europea. Il DII, come indicato nei Metadati, è un indicatore composito, derivato dall’indagine sull’utilizzo delle ICT e del commercio elettronico nelle imprese. Il DII è uno degli indicatori chiave nel contesto del Digital Decade, che definisce l’ambizione dell’Europa sul digitale, delineando una visione per la trasformazione digitale e obiettivi concreti per il 2030 nei quattro punti cardinali: competenze, infrastrutture, trasformazione digitale delle imprese e dei servizi pubblici. L’indicatore, costruito per la prima volta nel 2015, misura l’utilizzo delle diverse tecnologie da parte delle imprese in vista dell’obiettivo al 2030 di avere oltre il 90% delle piccole e medie imprese (PMI) dell’UE con almeno un livello base di intensità digitale.
Come indicato nella stessa fonte citata, la composizione del DII varia tra i diversi anni di indagine, a seconda delle domande incluse nel questionario; pertanto, la comparabilità nel tempo potrebbe essere limitata.
Questo elemento appare in particolare interessante considerando gli anni dal 2021 al 2024. Se infatti nei due anni dispari il questionario è praticamente lo stesso, con una modifica solo in una delle 12 domande, nel 2022 la variazione è stata di oltre lil 67% (8 domande su 12, TABELLA 1) sul 2021 e nel 2024, rispetto al 2023, sarà di 7 domande su 12.
Una modifica che ha portato nel 2022 il numero di imprese italiane con almeno 10 dipendenti e un livello base di digitalizzazione a salire di quasi 10 punti percentuali, per poi scendere di nuovo di quasi la stessa ampiezza nel 2023. Una salita artificiosa che, senza adeguata analisi, poteva essere scambiata per genuina (FIGURA 1).
Del rischio di utilizzare acriticamente i risultati degli indici, soprattutto se aggregati e sintetici, è stato già detto e, per concludere, fornisco un altro esempio (FIGURA 2 e 3).
Quello su cui è interessante soffermarsi è quanto la scelta delle domande (indicatori) influisca sul risultato e quanto possa favorire un paese rispetto all’altro nella classifica generale. Considerando i risultati della figura di seguito (FIGURA 4), emerge come una modifica del questionario – per quanto comune a tutti i paesi europei – non impatti su tutti nello stesso modo, in virtù di tessuti produttivi molto diversi e da una diffusione disomogenea delle tecnologie.
Una ulteriore riflessione è che ogni sotto indicatore vale 1 e che il livello richiesto dal digital decade della Commissione non richiede 12 obiettivi su 12, ma almeno un livello base di digitalizzazione, ovvero almeno 4 su 12. Pur se migliore rispetto alla media UE27, leggere il dato italiano (oltre il 41% delle imprese che non raggiunge questo livello) senza approfondire gli indicatori rischia di spostare la percezione che il livello minimo richiesto dalla Commissione sia influenzato solo dalle performance delle imprese. Analizzando infatti i vari indicatori del 2023, seguendo quindi il cambio compiuto rispetto al 2022 e che sarà però riproposto nel 2024, emerge una correlazione tra gli anni ma anche una differenza tra le performance a seconda dei criteri utilizzati (FIGURA 5).
Infine, è interessante notare come del 2024 sarà mantenuta la domanda sull’intelligenza artificiale, che – presente nel 2021 – era stata eliminata nel 2022, anno di diffusione pubblica di ChatGPT.
Come passo ulteriore, ho ricercato gli indicatori separati per capire quanto le imprese italiane si discostino dalla media UE27 (Tabella 2). In sintesi, partendo dal dato positivo che abbiamo accennato sull’indice sintesi del DII, l’Italia registra risultati positivi in particolare per l’utilizzo di robot, industriali o di servizi, e per l’avere documenti su misure, pratiche e procedure per la sicurezza informatica; negativi invece per e-commerce e, in particolare, per l’impiego di specialisti ICT.
Guardando più da vicino questo ultimo risultato, il dato più interessante è sui settori; se infatti la dimensione sconta anche una penalizzazione di base (è più semplice, anche per caso, impiegare uno specialista ICT su 250 dipendenti che su 10), per quanto sarebbero proprio le piccole imprese ad averne più bisogno, è il dato sui settori che si conferma più interessante. Settori come ristorazione, accoglienza, ma anche i settori tipici del Made in Italy sono quelli più in ritardo rispetto alla media europea. Nella FIGURA 6 sono considerati alcuni aggregati e di tali settori.
In conclusione, il grande merito di queste banche dati è l’enorme mole di informazioni che vi sono contenute. Già solo scendendo dal livello 0 al livello -1 si scoprono informazioni molto interessanti. Come la famosa immagine dell’iceberg, la maggior parte della massa è sotto la superficie.
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