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Zaffarano (Will): il futuro del giornalismo è il dialogo con la community
Ho conosciuto Francesco Zaffarano quando Avis Milano, di cui sono Presidente, ha instaurato una partnership con Will Media per promuovere la donazione di sangue e ho subito pensato di doverlo inserire nella lista dei giornalisti da intervistare, perché una voce della nuovissima generazione non poteva mancare, ma soprattutto non potevo esimermi dal raccontare questa nuova forma di giornalismo, una realtà come Will che in pochissimo tempo è riuscita a raggiungere numeri considerevoli (1,3 ml di follower su instagram), acquisita, circa 10 gg fa da Chora Media, podcast company fondata da Guido Brera, Mario Calabresi, Mario Gianani e Roberto Zanco “dando vita al primo polo italiano dell’informazione nativa digitale in audio e video”.
Sei molto giovane, ma vanti una carriera di tutto rispetto, ti va di raccontarci gli step che ti hanno portato fino a Will?
Mi sono avvicinato al giornalismo abbastanza presto. Mentre studiavo Filosofia all’Università Statale di Milano ho cominciato a scrivere per alcune testate online e subito dopo la laurea sono entrato alla Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica. Dopo il primo anno ho fatto uno stage curriculare a La Stampa a Torino, nel reparto Media Lab dove ci si occupava di giornalismo multimediale e interattivo, che all’epoca era all’avanguardia. Finito il mio stage sono stato richiamato da La Stampa, dove sono stato assunto con un contratto di praticantato. Ho lasciato la scuola di giornalismo e sono entrato nel primo social media team de La Stampa, probabilmente il primo in Italia per un quotidiano. Sono rimasto a La Stampa per due anni, sotto la direzione di Calabresi, e di Molinari fino alla fusione con il Gruppo Gedi. Mi sono poi dimesso da La Stampa perché volevo trasferirmi all’estero, ma nel frattempo ho ricevuto un’offerta per lavorare al Visual Lab del Gruppo GEDI, in un team che realizzava contenuti speciali per le piattaforme, di tutte le testate del Gruppo. Dopo un anno però la voglia di fare un’esperienza all’estero non mi aveva abbandonato e quindi mi sono trasferito a Londra, dove mi sono iscritto di nuovo all’Università per studiare giornalismo interattivo e dopo la laurea ho lavorato prima al The Economist come instagram producer e poi al The Telegraph come senior social media editor, dove ho lavorato a diversi progetti tra cui il lancio e la strategia per il loro account su TikTok. Durante la pandemia sono passato da Milano con l’idea di fare un po’ di smartworking dall’Italia, ma sono stato contattato da Alessandro Tommasi che mi ha proposto di entrare in Will come Editor in Chief.
Appartieni a quella generazione di transizione che probabilmente in casa ha sempre avuto a che fare con la stampa cartacea, ma professionalmente le tue esperienze sono quasi esclusivamente nel mondo digitale. Qual è il plus di questo iter formativo?
Anagraficamente faccio parte di quella generazione ma ho avuto la fortuna in famiglia di respirare sempre tanta tecnologia. Credo che il vantaggio sia di aver vissuto questa transizione con una maggiore apertura all’innovazione. Spesso, ad esempio, sento dire da colleghi con più anni di me che con la tecnologia si sono persi alcuni valori del giornalismo. Ma i valori e le buone pratiche non appartengono al mezzo, appartengono al modo in cui fai informazione. Però è sempre utile conoscere la prospettiva storica e credo che per me il plus sia quello, aver vissuto la transizione, mi dà una prospettiva diversa sulle prossime evoluzioni. Quando arriva una nuova piattaforma, non mi preoccupo che possa ostacolare il mio modo di lavorare, perché sono preparato all’idea che continueranno ad esserci nuovi strumenti, nuovi linguaggi e mi sono costruito una forma mentis per approcciare le novità.
Nelle interviste fatte ai giornalisti che hanno mosso i loro primi passi fra gli anni ’80 e ’90, tutti mi hanno raccontato di quanto fosse entusiasmante e di quante opportunità avessero loro in quegli anni, possibilità che invece non hanno i giovani che lavorano oggi in redazione, sia a livello economico e sia di esperienza sul campo. Cosa ne pensi?
Penso che sia stato molto vero fino a poco tempo fa. Il mercato del lavoro in Italia è lento e fatica a valorizzare i talenti e chi si affaccia al mondo del giornalismo deve farlo con molta convinzione e con la consapevolezza che non sarà un percorso semplice. Quando sono entrato nella Scuola di giornalismo, i professori ci restituivano un’immagine molto tetra sul nostro futuro professionale. In effetti in quegli anni era difficile trovare anche solo uno stage, i giornali erano tutti in stato di crisi. Io sono entrato a La Stampa perché da una settimana era finito il periodo di solidarietà, sono stato fortunato. Credo però che da un certo punto di vista oggi ci siano molte più opportunità di fare esperienza in modi alternativi. La moltiplicazione delle piattaforme e la facilità di accesso ad alcune tecnologie e applicazioni per la produzione di contenuti multimediali permette oggi, a tantissimi aspiranti giornalisti, di creare prodotti editoriali indipendenti, che siano podcast, newsletter o pagine di informazione sui social media. Certo non è come fare esperienza in redazione con un editor che ti affianca e ti aiuta a crescere, ma allo stesso tempo è un’esperienza imprenditoriale che praticamente nessun giovane giornalista, fino a qualche anno fa, aveva l’opportunità di fare. Io per primo non l’ho mai fatto, ho sempre lavorato per qualcuno. In Will invece ci sono persone che hanno fatto anche questo tipo di esperienza, che si sono fatte notare perché avevano lanciato una newsletter interessante, nella quale avevano fatto diventare lavoro una loro passione. È sicuramente un modo per prendersi il proprio spazio e farsi spazio nel mondo dell’editoria.
E per quanto riguarda le esperienze dirette sul campo, ci sono ancora le possibilità economiche per mandare i giovani all’estero a fare gli inviati?
Innanzitutto se mancano le risorse economiche, forse si dovrebbero rivedere i modelli di business. E comunque i giovani non vengono mandati sul campo, perché si sceglie di non farlo, si tende a dare sempre la precedenza ai giornalisti con più esperienza. I giornalisti più anziani però potrebbero fare un passo di lato, rinunciare a un po’ di protagonismo e dedicarsi di più a un lavoro di mentoring, per formare le nuove leve di domani.
Passiamo a Will. Community e inclusione sono due parole che vi contraddistinguono. Vuoi raccontarci come è nato Will, come si è costruita la community e quanto si è allargata, non tanto in termini di numeri, ma di interessi?
L’idea alla base di Will è raccontare alla nostra community i grandi cambiamenti che attraversano il mondo, senza però lasciare indietro nessuno. Quando parliamo di inclusività non intendiamo solo che l’informazione deve restituire un’immagine fedele della composizione della nostra società, ma anche che l’informazione deve essere genuinamente accessibile anche a chi non è esperto o esperta dei temi di cui parliamo. La nostra idea di informazione non rifugge la complessità, ma cerca di restituirla in modo chiaro e lineare. Il team di Will è composto da persone che hanno competenze molto diverse fra loro, ci sono giornalisti, ricercatori, attivisti, alcuni arrivano dal mondo delle aziende, ognuno porta la sua expertise e lo sforzo collettivo che facciamo è di tradurre questa conoscenza in un linguaggio accessibile a tutti.
Qual è la vera sfida per l’informazione di qualità? Avere una community selezionata che ricerca gli approfondimenti o far arrivare l’informazione di qualità anche a persone che non appartengono a quella community?
Secondo me è molto importante diversificare, non è consigliabile fare solo una cosa, è importante anche per la sostenibilità economica del giornale stesso. Will è un prodotto che vuole raggiungere più persone possibili, partendo però da un’informazione che si basa su dati e che con il giusto mix, fra diverse piattaforme e diversi linguaggi, fra approfondimenti e informazione, raggiunge progressivamente un pubblico sempre più ampio, con l’obiettivo anche di far dialogare i diversi target.
Secondo te il giornalismo “tradizionale” come vede queste nuove forme di informazione, come Will?
C’è sempre una quota di scetticismo, ma una fetta sempre più grande dell’editoria ci osserva con molto interesse e sta capendo che quello che facciamo ha un valore e diverse realtà stanno prendendo ispirazione dal nostro lavoro per provare a innovare la propria presenza sulle piattaforme.
Branded Content. Avete mai detto di no a qualcuno, perché portatore di un messaggio che non vi appartiene?
Sì, è successo, anche perché a volte ci sono potenziali clienti che fraintendono l’obiettivo del branded content. Non facciamo product placement, non facciamo comunicazione di prodotto. Per noi branded content è comunicazione in partnership basata sulla condivisione di valori e quando è capitato che su quei valori non ci fosse allineamento, abbiamo preferito fare un passo indietro.
È meglio adattare il contenuto alle diverse piattaforme di fruizione o selezionare i contenuti in base alla piattaforma?
È un mix dei due approcci. Quando apri un nuovo account su una piattaforma può avere senso partire con il cross-posting, cioè lo stesso contenuto veicolato su più piattaforme. È un modo semplice per cominciare a testare quella piattaforma e come i tuoi contenuti performano in un ambiente diverso. Ma più si va avanti e più è importante dedicare risorse ed elaborare una strategia editoriale specifica per ogni piattaforma. È quello che abbiamo fatto per Will, dove tutti i canali inizialmente si sono basati sulla pubblicazione dei contenuti di Instagram ma oggi hanno tutti dei contenuti dedicati. Il vero traguardo è quando sono le altre piattaforme a generare un contenuto, che la nostra piattaforma principale “ruba”: vuol dire che abbiamo lavorato bene per rendere anche gli altri canali autonomi, forti e con un processo editoriale efficace.
Due domande di rito: qual è il futuro del giornalismo? Un consiglio che ti è stato dato e che è stato prezioso per la tua crescita professionale
Quale sia il futuro del giornalismo non saprei, ma sono convinto che nel futuro del giornalismo ci sia sempre più community. Non può esistere un giornalismo sostenibile economicamente se non ci riconnettiamo con le persone che compongono le comunità attorno alle realtà editoriali. E questo significa maggiore attenzione ai loro bisogni, maggiore dialogo e maggiore coinvolgimento della community nei processi editoriali. Dobbiamo ricordarci che noi lavoriamo per le persone che leggono, guardano e ascoltano il nostro giornalismo. Siamo al loro servizio e se non ci chiediamo di cosa abbiano bisogno davvero significa che stiamo facendo un pessimo servizio.
Ai giornalisti e alle giornaliste più giovani (detta così mi fa sentire un po’ vecchio, confesso) consiglio di non avere paura di chiedere uno spazio. Bisogna sempre farlo con rispetto ed educazione, ma senza scusarsi di esistere. Io mi sono avvicinato al mondo del lavoro con l’idea che per me non ci fosse spazio e quando me lo hanno dato, con i miei primi lavori, l’ho considerata una grandissima concessione. Invece dovrebbe essere normale.
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