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Weekend: l’amore umano, troppo umano, che non piace alla chiesa
“Sconsigliato, non utilizzabile, scabroso”. Dovrebbe bastare questo giudizio, a dir poco demenziale, emanato dalla Commissione Nazionale Valutazione Film della Cei, a suscitare una reazione di massa della società civile capace di intasare le sole 10 sale dove “Weekend” verrà proiettato questo fine settimana, anche nel malaugurato caso si trattasse di un film bruttino.
L’arte, infatti è questione di estetica e solo in alcuni casi e del tutto incidentalmente, di etica.
In un paese però che copre le statue per non urtare la sensibilità ottusa del potente di turno, questa verità fin troppo lapalissiana pare essere ancora oggetto di opinione. Proviamo a fare spallucce e a premere il tasto “ignore”.
Il primo lungometraggio del cineasta britannico Andrew Haigh è un film bellissimo, prezioso e soprattutto straordinariamente connesso con dibattiti e fermenti sociali in atto nel nostro paese e pure con episodi recentissimi di cronaca nera su cui molto (e male) si sta riflettendo.
Russell e Glen sono due giovani diversissimi che si incontrano un venerdì sera in una discoteca e passano la notte insieme.
Non è stato solo sesso, lo si capisce subito: al risveglio c’è già una malcelata voglia di accogliersi e conoscersi.
Il timido e riservato Russell viene attratto e atterrito dalla personalità estrosa e in apparenza forte di Glen e non sa, come noi tutti sempre non sappiamo in questi benedetti e rari casi, che lo stesso sta accadendo a Glen nei suoi confronti.
Il loro avvicinarsi l’uno all’altro comporta un fisiologico e doloroso distacco dai fantasmi e dalle certezze dell’essere soli, che è percorso di maturazione e crescita.
Da questo momento inizia un rincorrersi istintivo senza un cercarsi razionale che culmina in un “trovarsi” che però non potrà essere “per sempre” come nelle migliori tradizioni, ma a tempo determinatissimo.
La sera successiva i due ragazzi, rintanati in un anonimo appartamento della periferia di una Nottingham algida e geometrica, consumano droga e bevono.
La mente dello spettatore viene teletrasportata al tristemente noto appartamento romano che sta riempendo le cronache dei giornali, ma in questo caso, cocaina e birre introducono non ad un drammatico abisso, ma ad una delle più belle scene del film, un dialogo duro, commosso, avvincente fra due visioni della vita contrapposte.
Il gay dichiarato e accettato (Glen) non cerca l’amore e la sua consacrazione in un matrimonio, civil partnership, o unione civile che dir si voglia.
Non ci crede, ha già dato, ma soprattutto pensa che scimmiottare una istituzione eterosessuale sia un normalizzarsi per essere tollerati, tollerabili perché addomesticati insomma.
Russel, che di strada per traguardare una piena accettazione ne ha ancora di fronte molta, difende invece la prospettiva di un amore consacrato ed esclusivo, vincolato per scelta e non per esigenze di mimetismo sociale.
Ce ne è abbastanza per interrogare la nostrana comunità Lgbt (ammesso che lo voglia fare) se battersi per il pieno riconoscimento delle coppie di fatto sia la strada giusta da seguire per raggiungere una vera eguaglianza sociale, un vero rispetto, o al contrario, come sosterrebbe il radicale Glen, l’istituzionalizzazione a tutti i costi, non rischi di risolversi in una “eterosessualizzazione” che lascia in bocca il sapore acido della perdita di una identità, che è diversità e pertanto ricchezza.
Il film poi continua a consumare minuti nostri e loro nell’attesa di un addio che fin troppo presto, ma in maniera assolutamente delicata e con una portata formativa davvero importante, arriva.
In “45 anni” il suo secondo e acclamato film che ha fruttato alla splendida protagonista, Charlotte Rampling, una nomination all’Oscar, Haigh ci ha descritto come un amore di una vita possa crollare di fronte all’emergere di un passato taciuto, come cioè un insieme consolidato di abitudini, certezze, reciproche garanzie, possa andare in fumo corroso dal tarlo del dubbio.
In “weekend” sul banco degli imputati si accomoda invece il futuro: il futuro negato ad una storia che promette il meglio ma che non nascerà mai e che obbliga i protagonisti a concentrare tutto (compreso il loro cambiamento, il loro mutamento interiore) nel presente.
Il presente resta l’unica dimensione in cui provare ad essere felici quando essere felici a volte può essere anche solo desiderare, come afferma uno dei protagonisti, che la vita sia appena un po’ meno dura di così, e nello sguardo dell’altro si comprende che è già diventata “meno dura”, perché si è in due, ora, forse non domani, ma adesso.
Il presente, con la sua cronica difficoltà a farsi leggere, con la sua forte allergia ai giudizi tagliati con l’accetta e alle certezze preconfezionate, con i suoi costanti e spesso inascoltati inviti alla reciproca comprensione, rappresenta il solo posto dove si può e si deve pretendere di vivere e lasciar vivere.
Se solo anche i vescovi lo capissero…
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