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No, i videogiochi violenti non aumentano la criminalità (quindi non ditelo più)
Siamo all’inizio della Guerra Fredda quando, nei dormitori delle università statunitensi, nascono i primi videogiochi. Si tratta di prototipi preistorici, ma le loro potenzialità vengono subito recepite da quelli che sarebbero diventati gli sviluppatori più famosi nei decenni successivi. Dai cabinati all’Atari 2006, il videogioco passa dalle sale giochi alle case, ma è negli anni ’90 che il boom diventa inarrestabile. Nel ‘93 esce Doom, uno dei primi sparatutto che in pochi anni verrà giocato da decine di milioni di persone. Nel ’94 nasce la prima Play Station che arriverà a vendere 100 milioni di pezzi. Sul finire del millennio, l’ampliamento dello spettro di possibilità offerte al giocatore è corrisposto da un incremento della complessità della trama e da una maggiore caratterizzazione dei personaggi.
Violenti, con un linguaggio offensivo e con un’estetica spesso mutuata dal cinema statunitense, non sono pochi i titoli ad aver scatenato aspri dibattiti e condanne da parte di esponenti del mondo politico e della società civile.
Ai giorni nostri i videogiocatori in Italia sono oramai più di 25 milioni (comprendendo anche smartphone e giochi su facebook), divisi quasi ugualmente tra maschi e femmine e, nonostante ciò che si pensa, l’età media si attesta ormai intorno ai 32 anni. Nel mondo le stime più recenti individuano addirittura tra gli 1,2 e gli 1,8 miliardi di videogiocatori e l’industria del videogioco ha superato il fatturato di qualsiasi altra industria dell’intrattenimento, cinema compreso.
Nonostante i numeri però, in Italia il dibattito sul tema prosegue per una serie di luoghi comuni e preoccupazioni poco informate, utilizzando spesso e volentieri toni eccessivamente paternalisti che risentono di una conoscenza molto superficiale del videogioco e delle sue dinamiche. In particolare, in occasione dell’uscita di titoli contenenti cruda violenza grafica si urla spesso allo scandalo accusando questi di essere causa di comportamenti aggressivi e sociopatici negli adolescenti (qualche esempio 1, 2, 3). Questo mito è duro a morire nonostante quanto emerso dalla ricerca dell’Istituto Swedish Media Council, che dopo aver analizzato 161 articoli usciti su riviste scientifiche tra il 2000 e il 2011 è giunto alla conclusione che
“non esiste alcuna prova che i videogiochi violenti causino comportamenti aggressivi”.
Insomma non è il videogioco che predispone un adolescente a compiere azioni delittuose, piuttosto è il contesto sociale in cui cresce che può spingerlo ad adottare comportamenti aggressivi o criminali e sarà solo in un secondo momento che egli vedrà nel videogame la fascinazione per determinati comportamenti già conosciuti nel quotidiano.
Assodato che l’equazione “videogiochi violenti = giovani criminali” non regge, altre sono le tematiche che sarebbe interessante affrontare quando si parla di videogiochi. Al pari degli altri media comunicano messaggi: possono essere apologetici di una qualche visione, fare propaganda oppure veicolare stereotipi. Ovviamente, più il tema si avvicina a problematiche reali e controverse più il rischio che la narrazione sia tossica aumenta. Nel dibattito pubblico però i messaggi veicolati dai videogiochi non ricevono alcun tipo di attenzione rispetto ad altri media. Basti pensare al differente trattamento riservato sul finire del 2016 al film di Pif In guerra per amore, attorno al quale si è acceso un serrato dibattito in Italia per la riproposizione di un falso storico, caro agli statunitensi, che vede la Mafia siciliana collaborare con gli Alleati durante lo sbarco in Sicilia (per approfondire 1, 2, 3, 4). Stesso falso storico ripreso in Mafia II. In questo caso, nonostante la fama del gioco, nessuno si è interessato ai possibili errori o agli stereotipi contenuti nel prodotto, sebbene siano molto simili a quelli del film di Pif.
L’attenzione pubblica cresce invece quando questi trattano di violenza. Difficilmente ci si sorprende se nel cinema questa viene messa in scena, mentre, all’interno del medium videoludico, viene spesso affrontata come una cosa negativa in quanto sono i giocatori stessi a compiere atti discutibili. Il videogioco costruisce un ambiente in cui è possibile sperimentare dei vissuti o delle scelte morali senza correre quei rischi, in termini di conseguenze, che si correrebbero fuori dallo schermo: un mondo virtuale in cui compiere persino azioni che non si apprezzano. In questo contesto, operare una scelta, anche moralmente discutibile, può diventare lo stimolo per riflettere su determinate tematiche.
Sebbene di solito questo aspetto non venga considerato con il dovuto peso, sono molti i giochi che lasciano scegliere al giocatore le modalità con cui affrontare una determinata situazione dal punto di vista etico. L’interattività dei giochi oramai non è più il semplice comando di movimento (salto, giro, afferro) ma richiede una riflessione sulle conseguenze che l’azione avrà sul futuro del personaggio, impersonato dal giocatore. Anzi per quanto possa sembrare strano a chi non gioca, spesso la violenza è solo la componente propriamente ludica, mentre la narrazione può andare a parare su tematiche che niente hanno a che fare con le sparatorie. Il più delle volte è proprio la dimensione narrativa, con l’immaginario che crea, il motivo per cui un gioco raggiunge il successo, come ad esempio le distopie transumane di Deus Ex, i temi dell’individualismo e del capitalismo di BioShock o la critica all’invasione dell’Iraq in Gears Of War – in questo caso forse anche la motosega attaccata al fucile ha contribuito… – e molti altri.
Come ogni prodotto culturale, il videogioco è la summa e la sintesi del rapporto tra produttori-fruitori-commentatori ed è il frutto di molteplici agenti, dalla cui collaborazione (tecnica, grafica, aziendale, artistica) nasce l’oggetto game. Tuttavia la stampa generalista spesso tende a ignorare il contesto, le specificità del mezzo e la sua filiera produttiva considerandolo, per disinformazione o per convenienza politica, alla stregua di un giocattolo per bambini.
Strumentalizzazione e ignoranza del media sono ciò che blocca maggiormente qualsiasi riflessione utile e proficua sul tema; ciò vale soprattutto quando si toccano argomenti complessi come la fascinazione verso stili di vita violenti, iconografie tratte dalla criminalità organizzata o la propaganda degli stati.
Negando al videogioco la dignità di essere considerato un media come un altro si ha il doppio effetto di additare i videogiocatori come dei “bamboccioni perdigiorno” e si evita di approfondire il tema, anche quando, come nel caso di Mafia II, il videogioco si fa portatore di messaggi e interpretazioni storiografiche che rischiano di essere assimilate acriticamente dai giocatori; o come quando nel gioco sviluppato dal dipartimento di difesa USA, America’s Army, la lunga sessione di sparatorie e addestramento virtuale si conclude con il vero modulo per arruolarsi nell’esercito.
Insomma, i temi da analizzare sono tanti e dopo sessant’anni di convivenza, dobbiamo iniziare a rapportarci al videogioco con lo stesso senso critico con cui analizziamo e interpretiamo tutti gli altri media, andando oltre la dimensione ludica, sviluppando il discorso secondo le singole peculiarità del medium e dell’immaginario che crea. Sarebbe più efficace se ci si concentrasse maggiormente su quello che ha da dire, tenendo a mente che, né più né meno di un qualsiasi altro media, può commettere errori.
Zeno Gaiaschi
Sara Troglio
Questo articolo è una rivisitazione del saggio scritto per Under – Giovani. Mafie. Periferie. a cura di Danilo Chirico e Marco Carta (Giulio Perrone Editore, 2017)
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