Media
Com’è che la pubblicità racconta la nuova Africa meglio dei giornalisti?
E se la pubblicità oggi fosse l’unica espressione della creatività umana capace di restituire al mondo immagini infinite e convincenti di una realtà complessa, senza cifra, in continuo mutamento? Se riuscisse cioè dove persino il giornalismo, per non parlare poi della politica, sembra fallire, annaspando in un mare di rappresentazioni talmente vecchie da apparire surreali, e pericolose anche, perché alla base di scelte politiche rilevanti per la collettività?
Per dare una possibile risposta a questi interrogativi, si abbassi lo sguardo all’attualità. Storicamente, e le cronache odierne lo confermano, la rappresentazione dell’Africa sui media e nell’immaginario collettivo è quanto di più lontano dalla realtà: un’entità multiforme dal grande dinamismo politico, culturale ed economico. Come ha scritto lo storico britannico-nigeriano David Olusoga in un articolo sulle origini del razzismo in Europa apparso sul Guardian la scorsa settimana:
“There is a view that discussions about modern Africa should be forward-looking. They should be about trade, entrepreneurship, expanding markets, Chinese investment and the commercial and cultural dynamism that undoubtedly characterises many of the continent’s 55 nations. This future-facing philosophy is an admirable attempt to free the spirit and imagination of the continent from the weight of its own history and the legacies of colonialism”
Nonostante sia indubbio lo sforzo costante dei maggiori media anglofoni nel mostrare l’Altra Africa – la voce di Quartz mi sembra tra le più originali -, la visione dominante resta quella di un territorio afflitto da guerre, fame e malattie, le cui popolazioni, per storia e per cultura, faticano ancora oggi nel darsi un ordine. Sempre più spesso accade, invece, che sia la pubblicità a interrompere il loop di immagini negative dal continente, immettendo nel flusso narrazioni se non reali, quanto meno verosimili.
Il noto brand americano Carhartt è l’unico sponsor del progetto “Uchronia: The Unequivocal Interpretation of Reality”, che riporta alla luce una storia dell’antico Mali, facendola rivivere in un’opera collettiva in mostra in questi giorni alla Galleria 12 Mail presso il Red Bull Space di Parigi. Nel 1311 Abubakari II, reggente dell’ allora Impero del Manden, salpò dalle coste dell’Africa Occidentale con al seguito una flotta di duemila navi per esplorare le acque dell’Oceano Atlantico. In alcuni paesi africani, è all’imperatore maliano che la tradizione attribuisce la scoperta dell’America, e non a Cristoforo Colombo, fondatore del Mondo Nuovo come da manuale di storia dell’Occidente.
Il fotografo Maciek Pozoga scova questa storia affascinante nella rete e decide di partire alla volta della capitale del Mali, Bamako, insieme al musicologo Christopher Kirkley sulle tracce dell’imperatore africano. In un viaggio lungo dieci giorni i due svolgono una ricerca semi-etnografica raccogliendo testimonianze e lavorando con artisti visuali, antropologi, griots, linguisti e produttori locali. Il risultato finale è una straordinaria opera polifonica e poliforme – oltre a una mostra fotografica, un vinile dal titolo “Uchronia, field from alternate realities” prodotto dall’etichetta americana Sahel Sounds – che esplora i confini del reale e dell’ irreale in una Bamako che, in fondo, non esiste.
Un’altra Africa è quella dell’agenzia Crispin Porter + Bogusky e Richard Bullock per Turkish Airlines. Nello splendido spot TV “Fly Africa” lo spettatore viene scaraventato in un viaggio nelle decine di destinazioni africane servite dalla compagnia di bandiera turca, che è al tempo stesso un’indagine storico-antropologica del concetto di volo con continui rimandi a Istanbul e a paesaggi africani.
https://www.youtube.com/watch?v=XtTv7t7z9eo
Cosa hanno in comune questi due progetti? Entrambi producono rappresentazioni possibili di una realtà che sfiorata dallo sguardo dell’osservatore prende una forma ogni volta diversa dall’ originale, pur conservando una propria credibilità. Il linguaggio pubblicitario non domina la narrazione, ma rende fluida la combinazione di metodi, pratiche, elementi provenienti da discipline diverse: la storia, la sociologia, l’antropologia, la musicologia.
Per tornare ai quesiti iniziali, chi scrive certo non si auspica di vivere in un mondo filtrato e reinterpretato dalla pubblicità, ma invita piuttosto a guardare alle opportunità insite in questi nuovi esercizi attraverso i quali le marche espongono al pubblico-consumatore la propria visione del mondo in modo finalmente responsabile più di quanto stia avvenendo per altri soggetti come politica e informazione, naturalmente vocati a mediare tra realtà e società.
* * *
Devi fare login per commentare
Accedi