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Un terzo dei followers mondiali sono falsi? Secondo il New York Times si
Sarà stato per via del week-end, che al pari delle vacanze estive o natalizie viene onorato dai giornalisti italiani con dedizione assoluta, fatto sta che sabato scorso, sul New York Times, è uscita un’inchiesta clamorosa.
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Intitolata “The Followers Factory”, (“la fabbrica dei followers”), rivela l’esistenza di un mercato nero di followers a disposizione di chiunque voglia aumentare il proprio seguito online, ottenendo un’attenzione mediatica da spendersi poi nei settori economici più disparati.
I fatti: lo scorso aprile il New York Times scopre l’esistenza di un sito – Devumi.com – che offre un servizio molto particolare. In teoria, Devumi offre ai propri clienti la possibilità di “accelerare la propria crescita online”. In pratica, vende pacchetti di followers Twitter e visualizzazioni Youtube a prezzi stracciati: si va dalle poche decine di dollari per 500 followers ai 3 mila necessari per acquistarne mezzo milione.
I giornalisti acquistano il pacchetto e scoprono che Devumi mantiene le promesse: i profili campione su cui i pacchetti vengono sperimentati diventano improvvisamente tra i più popolari su Twitter.
Non solo: i followers Devumi si dimostrano assai attivi e re-twittano sistematicamente ogni tweet lanciato dal profilo campione, con tanto di commenti entusiasti. Non si tratta però di persone reali, quanto di BOT di ultima generazione, ovvero di profili falsi generati dal computer basati su un’intelligenza artificiale abbastanza sviluppata da poter sostenere elementari conversazioni con altri utenti reali, oppure di interagire tra loro tramite scambi di opinioni predeterminati, funzionali a dare l’illusione di essere il prodotto di un vero essere umano.
Fin qui, l’inchiesta non proverebbe nulla di incredibilmente nuovo; tuttavia il livello di sviluppo di questi profili automatici, unito alle moderne applicazioni di face-swap che consentono – ad esempio – di mettere la faccia di un’attrice famosa su un video pornografico, lasciano presagire un futuro a misura di incubo (cosa potrebbe accadere, ad un’umanità litigiosa come la nostra, dove c’è chi crede che la Boschi sia davvero andata al funerale di Riina, se un BOT diffondesse un falso video-scandalo con protagonista il politico del campo avverso, e poi migliaia di altri BOT prendessero a commentarlo e a re-twittarlo all’infinito?).
La cosa davvero straordinaria, tuttavia, è che il New York Times ha visionato, dopo aver lavorato al pezzo fin dallo scorso aprile, l’elenco completo dei clienti di Devumi, dove compaiono centinaia e centinaia di celebrità provenienti da tutto il mondo. Si va da Miss Irlanda all’attore di Sons of Anarchy, da un politico di primo piano Israeliano a un famoso chef canadese passando per una medaglia olimpica neo-zelandese. Ruoli e professioni diversi, accumunati dall’aver acquistato impunemente centinaia di migliaia di falsi follower.
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Il fenomeno è talmente esteso che secondo alcune fonti circa un terzo dei followers mondiali su Twitter sarebbero falsi; e soprattutto riguarderebbe tutti i social, giacché aziende identiche a Devumi offrono il medesimo servizio su altre piattaforme.
Viviamo in un mondo in cui il “peso” online si rivela spesso fondamentale per la nostra professione: in molti ambienti di lavoro il numero di followers viene utilizzato come misura per valutare il valore di una persona. Per non parlare dei cosiddetti “influencers”, gente che campa grazie ai soldi che le aziende danno loro per pubblicizzare con i loro post un prodotto. Con “The Followers Factory” il New York Times punta il dito contro l’intero sistema, sostenendo che potrebbe essere una colossale truffa.
I numeri sarebbero gonfiati e nel costruire quelle immense platee-social in molti avrebbero barato – tipo gli sportivi con il doping. Altro che autenticità, sofisticate leggi di marketing e altre fregnacce assortite che ci hanno raccontato in questi anni: ciò che servirebbe davvero è solo un pacco di soldi da investire per far partire il tutto e poi aspettare l’effetto valanga.
Gia’, perché siccome gli algoritmi mettono in evidenza i contenuti più popolari, allora per avere successo basterebbe crearsi subito una platea di followers-BOT comprati, e poi aspettare che arrivino anche gli esseri umani, che acciecati dallo spirito di emulazione alla base del funzionamento dei social non vedono l’ora di seguire il fenomeno del momento. E infatti, nella lista figurano influencers che erano illustri sconosciuti fino all’altro ieri e poi, una volta acquistati followers su Devumi, hanno visto i loro followers moltiplicarsi in maniera esponenziale. Inutile dire che ora vivono nella ricchezza, dispensando massime esistenziali sul vero senso della vita.
Chissenefrega di influencers e fashion-bloggers, potrebbe dire qualcuno. Tuttavia, nel momento in cui le aziende investono solo sulla base del criterio della “presenza online” il fenomeno finisce per avere conseguenza sociali e culturali che riguardano tutti. Quanti film sono stati prodotti a fantomatiche “web star” che poi si sono sempre rivelati – guarda caso – flop colossali? Quante carriere, nel giornalismo, si sono costruite solo sulla base di una manciata di pezzi re-twittati dieci-venti-centomila volte?
Il New York Times non ha rilasciato la lista di clienti completa, tuttavia grazie all’incredibile risalto che la vicenda sta avendo negli Stati Uniti (il Procuratore Generale di New York ha aperto un’inchiesta) è lecito aspettarsi molte novità, che magari riguarderanno anche influencers italiani.
Intanto, suggeriamo di divertirsi con un’applicazione segnalata dallo stesso quotidiano americano: si chiama TwitterAudit e consente di scoprire, inserendo il nome del profilo Twitter che si vuole controllare, quanti finti utenti seguono quel dato profilo. Abbiamo fatto delle prove con alcuni noti opinionisti e note opinioniste di casa nostra, scoprendo molte cose interessanti: chissà se gli interessati – e le interessate – ne sanno qualcosa.
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Qualcuno, di sicuro, sta cominciando a sudare freddo: forse, in un futuro prossimo, si dovrà cominciare a lavorare sul serio.
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