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Togliamoci di dosso gli abiti delle vittime

9 Novembre 2020

Il periodo è dei più faticosi. Questa è una certezza che acquisisce conferme giorno dopo giorno. Ci siamo dentro. E per starci con consapevolezza dobbiamo conoscere le storie di chi non ce la fa, le paure e disagi, i crolli e le perdite. Ripensavo a quella immagine del ristoratore italiano seduto davanti al suo locale con ancora indosso il grembiule da chef. Girava sui social media qualche tempo fa. La testa china in segno di disperazione per un nuovo DPCM che bloccava la sua attività.

Abbiamo bisogno di queste immagini? Sì. Servono per mantenere la lucidità del momento. Per non perdere di vista la gravità di quel che sta accadendo. Sono immagini che ci aiutano a reagire? No. Con ogni probabilità no.

Il rischio maggiore è quello di restare talmente sopraffatti dalla paura e dalla disperazione da rimanere immobili. Un senso di impotenza che viene amplificato da storie, immagini e parole che rievocano un problema più grande di noi e ci fanno sentire talmente piccoli da percepire la nostra inutilità. Accade anche di più: ci spingono a piangerci addosso in un momento in cui tutto quello che potremmo fare è muoverci con consapevolezza, delineare nuovi percorsi e affrontare il gigante uniti. Magari lasciandoci ispirare da altri che hanno più forza di noi in questo momento e che esplorano nuovi sentieri.

La giornalista Ingrid Thörnqvist, a capo della divisione Notizie Internazionali della Tv nazionale svedese, ha più volte espresso un invito ai giornalisti: quello di uccidere le vittime delle proprie storie. Una proposta provocatoria ma costruttiva che ambisce a un risultato molto chiaro: lasciare da parte il taglio standard delle storie per aprirsi a una narrazione nuova che ragiona su principi differenti. Raccontare le vittime ripetutamente è un pessimo giornalismo: semplicistico. Un giornalismo che sceglie di proporre la versione “senza speranza” della storia, intrisa di elementi che raccontano miseria e debolezze. Lontano dall’essere di aiuto, questo atteggiamento narrativo, porta dritto verso la strada dell’umiliazione per chi è protagonista della vicenda. È come ignorare le risorse che ogni persona ha a sua disposizione. E chi legge? A lui o lei è riservata l’identificazione con il dolore, il permesso di lamentarsi, la spinta a pretendere che altri risolvano i problemi.

Mi viene in mente il fotoreporter di guerra Jan Grarup, che ha vinto otto volte il World Press Photo. Riflettendo sul suo lavoro racconta di aver notato che le sue immagini devastanti riescono a generare un barlume di speranza quando coglie dettagli che ambiscono a uno sguardo sul futuro possibile. Non mancano, nei suoi scatti, immagini di povertà, guerra, devastazioni. Ma vi sono anche elementi che sembrano voler dire: costruiamo, c’è ancora qualcosa che possiamo fare. C’è un suo scatto, in particolare, che mi colpisce. La scena è quella del terremoto di Haiti del 2010. La foto mostra, tra le macerie,  due ragazzi che si tengono per mano e vanno verso un nuovo futuro. È così che, afferma lui in diverse interviste, ha trovato il modo di proporre fotografie ancora più potenti. Quello che ha fatto è semplicemente cambiare il punto di osservazione.

Credo che questo che stiamo vivendo, sia il momento giusto per aggiungere nuove narrazioni a quelle che fanno leva sulle emozioni di pancia del lettore. Ma è anche lo spazio in cui cogliere l’opportunità di cambiare rotta al giornalismo facendo appello all’abbondanza di storie costruttive che esistono là fuori. Quelle che raccontano di persone che hanno trovato soluzioni e risposte pur senza dimenticare il problema, aziende che hanno cambiato corso e hanno trovato nuove partnership, comunità che hanno identificato nuove possibilità e le hanno messe in pratica, professionisti che hanno compreso di doversi reinventare. Come hanno fatto? Cosa possono insegnarci? Dove sono queste storie?

Togliamoci di dosso gli abiti delle vittime e indossiamo quelli di chi lotta con le soluzioni in mano. Raccontiamo di più perché non tutti abbiamo la stessa forza ma in molti potremmo cogliere nuove ispirazioni.
Favoriamo, insomma, una cultura del “come” che porta a nuove ricerche e nuove domande.

Ne abbiamo bisogno, forse nemmeno ci accorgiamo di quanto ci aiuterebbero.

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