Due amici. Sono seduti sul treno diretto a Bologna e chiacchierano del più e del meno. Quindi, di questi tempi, degli attentati di Bruxelles. Ché, argomenta uno, “non si parla d’altro. Sui giornali, alla radio. In Tv poi…”. Già, replica l’altro, “è normale che ci si soffermi su queste cose oggi. Certo, si aggiunge paura a paura, si somma la violenza reale a quella virtuale: tra cinema, serie televisive, videogame, il tema, è sempre quello lì, la violenza. Come se non bastasse quello che accade davvero”.
Visto il tono della voce – non bassissimo – ascolto, come altri nello scompartimento. Apro una rivista alla pagina dedicata ai programmi televisivi. A scorrere i titoli, oltre ai tanti talk-show che punteggiano il palinsesto della settimana, effettivamente è un florilegio di serie televisive a sfondo investigativo e ‘noir’.
A parte qualche fiction, principalmente ‘nostrana’, in cui la cornice è quella del sociale o del costume, il grosso delle serie – per tacere di una manciata di canali interamente ed esplicitamente dedicati al giallo – è tutto un intreccio di racconti criminali, personaggi dalle menti criminali, delitti efferati. Serial killer, esperti di delitti efferati, detective, medici, anatomopatologi chiamati a risolvere casi, spesso di violenza e ferocia inaudita. Programmi spalmati su tutta la giornata. Facilmente fruibili e che si sovrappongono, nella loro finzione, alle immagini e ai racconti del vero quasi stendendo un unico canovaccio narrativo.
In cui la violenza e la paura diventano sottofondo quotidiano passibile di creare assuefazione e, al tempo stesso, generare diffusa ansietà. Una sorta di cortocircuito: se il cinema si può anche permettere il paradosso della violenza portata agli eccessi, chessó un Quentin Tarantino, la serialità televisiva amplifica le sensazioni di tutti i giorni, aggiungendo timore a timore. Sgomento a sgomento.
“E poi – riattacca uno dei due viaggiatori – vogliamo parlare dei talk-show? Del giornalismo? Come si fa, in due e due quattro, in un salotto, a spiegare cose così complesse… E tutte quelle voci che si accavallano…”.
Diverse sere fa. Parecchie sere fa, mi sono imbattuto in Tv, in un reportage sul califfato islamico. La scritta in sovraimpressione spiegava che il documento era già andato in onda la scorsa estate. Resto sintonizzato: si racconta la costruzione mediatica messa in piedi dal sedicente stato per conquistare cuori e menti. La narrazione, come si usa dire. Il reportage è diretto, le parole – non troppe – spiegano bene al pubblico i meccanismi comunicativi adottati, la scelta delle immagini, il racconto rivolto a chi e perché, l’uso delle musiche. Svela la capacità di adottare un approccio tipicamente occidentale, quasi hollywoodiano, nel veicolare i messaggi. Con stilemi più vicini ai videogame e agli action-movie che alla Tv tradizionale. Il documentario, didascalico, è spiazzante. Come è spiazzante, almeno da noi, il giornalismo di servizio. Che dovrebbe essere l’essenza di questa professione: prepararsi, studiare, andare sul posto, capire, comprendere, spiegare per far capire e far comprendere. Quello che diversi siti web sono riusciti e riescono a tratteggiare. E bene. Diversamente, spesso, dalla Tv.
Che pare inesorabilmente ancorata al cliché del talk-show. Con le sue regole certe. I politici di opposti schieramenti, meglio se urlanti. Gli immancabili esperti, più o meno sempre quelli, a girare da uno studio all’altro. Cliché che, forse, fanno audience e ingrossano la schiera di commenti su Twitter e simili (ormai, per molti, fissare lo schermo con uno smartphone in mano è l’unico modo godibile di seguire una trasmissione) ma – tra un insulto, una risata sardonica, sarcasmi assortiti dei tribuni in poltrona – aiutano poco a comprendere. Sommersi come si è dai rumori di fondo e dall’onda, quando arriva, puramente emozionale.
“Che poi, tutto quel vociare – scandisce il viaggiatore rivolto all’amico – diventa un po’ opprimente: a me un po’ di ansia la da. Comunque siamo arrivati – chiosa -, scendiamo. E speriamo che in stazione non succeda niente, va”.
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