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Talk show, il sonno della tv genera mostri

26 Settembre 2015

Avrei scommesso più facilmente sulla ricrescita (impossibile, a meno di un trapianto) dei miei capelli, e non che un giorno avrei dato ragione su qualcosa a Barbara Palombelli che ieri sera, ospite della Gruber a Otto e mezzo, ha detto di rimpiangere le vecchie tribune politiche dove il segretario del partito di turno, accompagnato dal suo addetto stampa, si sottoponeva al fuoco di fila delle domande cattive poste dai giornalisti di diverse testate.

Si parlava della crisi dei talk show e dell’attacco portato da Matteo Renzi nella direzione Pd a format che ormai fanno meno ascolti della 107esima replica di Rambo (dato confermato martedì scorso quando Rambo 2, all’ennesima messa in onda, ha battuto in termini di spettatori sia Ballarò di Giannini, sia DiMartedì di Floris).

Il vero problema dei talk show, a parere di chi scrive, non è tanto nella crisi degli ascolti, quanto nel fatto che al pari della sonno della ragione di Goya, creano mostri. A trasformarsi da onesti e bravi dottor Jekyll dell’informazione in Mister Hyde del piccolo schermo sempre più spesso sono i conduttori. Basta vedere quello successo al giornalista tedesco Ugo Gumpel a Virus quando ha fatto notare che fino ad allora non gli era stata data la parola. Il conduttore, Nicola Porro, stizzito, ha detto che in Italia i talk show “funzionano così”, e invece di riparare alla sua maleducazione, ha rincarato la dose mandando in onda la pubblicità. Della serie “questa è casa mia e qui comando io” (in realtà la casa di Porro dovrebbe essere in via Negri nella sede del Giornale, del quale è vicedirettore, e non in Rai, dove potrebbero valorizzare risorse interne: cosa dice a proposito la nuova presidente Rai, Monica Maggioni, che ha percorso tutta la sua carriera nella tv di Stato?).

A “mostrificarsi” sono anche gli ospiti dei talk (spesso sono sempre gli stessi che ritrovi alle otto del mattino ad Agorà, in prima serata da Del Debbio, più tardi da Floris e a notte fonda a Linea Notte, tanto che a volte ti sale la paura che Salvini te lo ritrovi nel frigo di casa, l’unico posto dove ancora non si è palesato durante la tua giornata). Un assaggio si è avuto sempre ieri sera quando Andrea Scanzi, giornalista del Fatto quotidiano, ha cercato di mettere in ridicolo il direttore dell’Unità Erasmo De Angelis, che già ci stava riuscendo benissimo da solo sostenendo che i giornali devono smettere di raccontare cattive notizie. Scanzi ha sottolineato come la storia della protagonista del film “Good bye, Lenin” (in estrema sintesi: nel film si ricostruisce un set per una paziente andata in coma nella Germania dell’est che si risveglia dopo la caduta del Muro, per farle credere che esista ancora la DDR) che De Angelis stava utilizzando per criticarlo, il direttore dell’Unità l’avesse usata qualche giorno prima per Marco Travaglio.

Per dirlo, però, Scanzi ha usato lo stesso metodo: si è autocitato, ripetendo quello che lui aveva scritto due giorni prima sul Fatto: “si è passati dall’editto di Sofia all’etwitto di Renzi”. Ovviamente con grande autocompiacimento (l’egocentrismo di Scanzi è noto ai più), quando il fatto che nessuno gli abbia contestato di usare lo stesso metodo di De Angelis avrebbe invece dovuto se non deprimerlo, almeno farlo riflettere: la Gruber, la Palombelli e De Angelis non avevano letto il suo pezzo o, ancora peggio, hanno avuto un moto di pietà nei suoi confronti. Astenendosi dal farglielo notare.

Tornando ai talk show, confesso: non ho mai visto una puntata intera di Floris sia in Rai sia su La7; dopo la copertina di Crozza, cambio canale e di Formigli guardo solo i reportage.
Ci sono politici che devono le proprie fortune a questi format. Non dimentichiamo che la Polverini è stata una creatura di Floris, che la invitava quando era segretaria dell’Ugl, così come lo stesso Renzi ha beneficiato della visibilità di questi programmi quando stava scalando il Pd.

Il vero problema è che, come molti convengono, realizzare un talk show costa molto meno di condurre inchieste sul campo come quelle di Iacona o dello spesso sottovalutato Iannacone con i suoi “Dieci comandamenti”. Quindi, almeno su questo, devo dare ragione a Renzi. E a questo punto, ahimé, mi tocca prendere in considerazione il trapianto dei capelli.

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