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Sponsored content e temi sensibili. Il caso Cocainenomics

8 Ottobre 2015

Milano. In un tardo pomeriggio di luglio seduti a un bar a Isola eravamo io, tre foto reporter, un regista e una produttrice tv. Argomento di discussione: può un contenuto sponsorizzato pubblicato su una testata giornalistica riguardare temi cosiddetti “sensibili”? ASSOLUTAMENTE NO è stata la risposta univoca dei due giornalisti – il resto della troupe si è da subito estraniata dalla conversazione – sostenuta con il fervore e la passione di chi crede fortemente nel mestiere del giornalista, difendendone l’indipendenza. Al lato opposto del tavolo, invece, la mia voce, messa ormai in minoranza, quasi gridava: SI.

Qualche giorno fa, ho ripensato a questo vivace scambio di opinioni quando, leggendo il Wall Street Journal online, l’occhio ha indugiato sul titolo “Cocainenomics” in bianco su sfondo nero con accanto la scritta sponsored content. Cocainenomics è il racconto dell’ascesa e il declino dell’impero della droga del trafficante colombiano Pablo Escobar a cui si ispira la nuova serie Narcos prodotta da Netflix, colosso americano della TV in streaming in Italia dal prossimo 22 ottobre. Per chi scrive Cocainenomics è anche uno straordinario prodotto di native advertising tra i più completi e riusciti mai pubblicati da un media internazionale. Vi spiego subito perchè.

 

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Dalla home page del WSJ dove è posizionata l’icona di Cocainenomics si accede a un sito internet dedicato, il cui contenuto è diviso in capitoli e sviluppato in un long-form format fatto di testi, video, motion graphics e video mapping. Il contenuto del brand ovvero gli estratti video della serie TV Narcos in formati sempre diversi si mescolano alla trattazione giornalistica sulla vera storia del trafficante colombiano. Sotto i video e lungo tutto il testo, le didascalie forniscono dati sul traffico di droga in quegli anni o citazioni dello stesso Escobar invogliando o disincentivando l’utente ad andare avanti con la lettura.

 

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Quanto al livello di interattività e partecipazione dell’utente, si parte dal titolo: chi legge può giocare con la scritta Cocainenomics fino a polverizzarla. Il contenuto è disponibile in inglese e in spagnolo. I capitoli possono essere condivisi sui principali social network singolarmente. Attraverso quest’ultimo comando, l’utente adopera una scelta in termini editoriali e visuali, fornendo a media e brand un’importante informazione riguardo ai propri gusti. Prima di chiudere con i tradizionali suggerimenti di letture dal contenuto simile, un quiz valuta il grado di attenzione e di assimilazione dei contenuti da parte dell’utente, costringendolo a una rilettura per avanzare nel test.

 

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quiz

 

Cocainenomics non rappresenta un’esperienza isolata nel suo genere nè per il WSJ e il suo braccio creativo, gli WSJ Custom Studios, nè per Netflix (si guardi il progetto Women Inmates in collaborazione con il New York Times), ma costituisce certamente un faro verso cui guardare sia in termini di multimedialità dell’informazione che di user experience. Per rispondere alla domanda iniziale sulla possibilità di produrre contenuti giornalistici su temi d’interesse sociale, politico e economico dove siano i brand a pagare, di fronte all’evidenza di esperimenti che giudico riusciti nel giornalismo anglosassone in corso già da qualche anno, mi sento di ribadire con forza il mio sì. Autorevolezza del media e importanti disponibilità di cassa (un’operazione come Cocainenomics può costare centinaia di migliaia di dollari) sono fattori imprescindibili e determinanti la qualità del prodotto finale.

E in Italia? Ancora prima di aprire battenti, Netflix ha annunciato che produrrà insieme a Cattleya e alla Rai la serie tratta da Suburra, il film di Stefano Solimma su Mafia Capitale. Possiamo aspettarci dunque una sponsorizzazione della nuova serie TV sul Corriere online o Repubblica.it stile Cocainenomics? Direi di no, almeno per il momento. Il mercato editoriale italiano comincia ora a muovere i primi passi nella produzione di contenuto sponsorizzato “sofisticato”, nella maggior parte dei casi per seguire un trend globale e non secondo una reale convinzione. L’intricata matassa delle relazioni tra mondo dell’informazione e mondo economico-finanziario, il dominante conservatorismo del giornalismo italiano e il numero limitato di brand disposti a investire ingenti quantità di denaro nella pubblicità online prima e nel native advertising poi, delimitano un perimetro culturale, prima ancora che fattuale, da cui, nei prossimi anni, ci si sposterà molto lentamente e con estrema cautela rispetto alla sensibilità dei contenuti trattati.

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