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Sondaggi Usa errati? Colpa della spirale del silenzio demoscopico
E’ ormai consuetudine. Il giorno dopo qualsiasi appuntamento elettorale, si scopre che le stime di voto dei sondaggi avevano azzeccato ben poco. Le presidenziali americane non hanno fatto eccezione: Hillary veniva data vincente, come noto, con un vantaggio nel voto popolare tra i 3 e i 6 punti percentuali, mentre nella realtà i due contendenti hanno di fatto pareggiato.
Vi ricorda forse qualcosa avvenuta nel nostro paese solo qualche anno fa? Esatto. Correva l’anno 2006, e Prodi, in tutte le rilevazioni delle settimane precedenti il voto, figurava in testa con un margine molto simile a quello di Lady Clinton, salvo poi assistere ad un responso delle urne che lo vedeva sì vincente, ma soltanto per un pugno di votanti.
Perché era accaduto? E perché accade di nuovo oggi, così come per la Brexit in UK? La responsabilità principale sta tutta in un fattore chiamato, un po’ pomposamente se si vuole, “spirale del silenzio demoscopico”, dal quale i sondaggisti non riescono a venire a capo. Non hanno strumenti esatti per misurare questa distorsione, sebbene ormai potrebbero anche loro tenerla nel debito conto, quando forniscono le stime.
In cosa consiste, dunque? In un fatto molto semplice e comprensibile: una fascia significativa di elettori allora di centro-destra e oggi repubblicani, intervistati a più riprese, non se l’è sentita di dichiarare un’opzione che sapeva risultare poco condivisa dall’opinione pubblica; il clima di opinione veicolato dai media non aveva dunque provocato un reale mutamento nelle scelte degli elettori, quanto piuttosto una incapacità di dichiarare apertamente il proprio orientamento di voto. A domanda, un numero consistente di intervistati favorevoli a Berlusconi, o a Trump, si astiene dal rivelare il proprio favore.
Il mondo dei sondaggi produce in definitiva una situazione-mostro che si ritorce negativamente su quello stesso mondo: il clima di opinione generato dalla diffusione dei risultati negativi di Trump, nel caso statunitense, ha cioè come effetto quello di enfatizzare, nelle risposte degli intervistati, una forte pervasività di quello stesso clima. E il clima di negatività tende ad alimentarsi proprio grazie alla diffusione dei sondaggi, in una continua spirale.
Come se una quota di elettori di Trump, certo minoritaria ma significativa, si fosse vergognata di dichiarare la propria scelta per il tycoon, che sapeva essere giudicato negativamente dall’opinione pubblica “che conta”, quella dei media, di molti artisti, del mondo economico, di molti importanti opinionisti. Ma poi, nel segreto dell’urna, invisibili agli occhi della società per bene, il suo voto a Trump lo dava, senza più vergogna.
La spirale del silenzio demoscopico è un effetto distorcente ormai ben noto, benché impossibile da quantificare. Ma certo, i guru americani avrebbero potuto facilmente tenerne conto, quanto meno dando a Trump il beneficio del possibile pareggio, nei voti popolari. E ipotizzandone quindi la vittoria nel conteggio degli stati.
La regola delle elezioni Usa è infatti ben nota: se il candidato democratico ha un numero di voti popolari simile a quello repubblicano, la vittoria di quest’ultimo è quasi certa. Perché i democratici possono contare su un forte vantaggio di consensi nei due stati più popolosi, California e New York, i quali però (benché diano molti grandi elettori) sono soltanto due, e non bastano a far vincere le elezioni. Per far propria la contesa dei grandi elettori, il candidato democratico deve avere un vantaggio, nei voti popolari, di almeno 2-3 punti.
Chissà se la prossima volta i sondaggisti americani se ne ricorderanno…
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