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Siamo ciò che diciamo. Educazione e responsabilità per un dibattito non ostile

19 Febbraio 2017

Di parole ostili ne ascoltiamo, diciamo, scriviamo, commentiamo molte ogni giorno. Sono quelle dell’invettiva contro il politico o il personaggio televisivo di turno, della discussione a colpi di agenzie e dichiarazioni aggressive ai talk-show, dei commenti che vediamo affastellarsi senza sosta sotto post e tweet in una colata inarrestabile e, soprattutto, indelebile. Attacchi che possono perdersi e sparire nell’arco di una giornata oppure creare un tale clima di ostilità diffusa da avvelenare i pozzi del dibattito e rimanere impressi nella vita e nella mente di chi ne è stato colpito. Proprio dalla consapevolezza che “la ferita provocata da una parola non guarisce” è nata Parole O_Stili, l’intensa due giorni che si è svolta il 17 e 18 febbraio nei saloni affacciati sul Mar Adriatico della Stazione marittima di Trieste. Un festival di parole vissute, imperniato su diversi panel tematici e originato dalla necessità di mettere nero su bianco un’ambiziosa volontà comune: dare vita ad una comunicazione non ostile.

Una comunicazione non ostile che può basarsi sui dieci punti-chiave che costituiscono il Manifesto del progetto: dalla definitiva assunzione che tutto ciò che facciamo e diciamo sul web è reale all’importanza delle parole come strumenti per gettare ponti, dalla responsabilità connessa ad un gesto quasi automatico come la condivisione di post e immagini alla scelta, controcorrente, di tacere. Pillole di wishful thinking di portata (purtroppo) limitata o provocazione da interiorizzare nella comunità professionale dei comunicatori e nei nostri comportamenti di cittadini-utenti? Quello che conta, come hanno giustamente osservato Martina Pennisi e Silvia Morosi in un articolo apparso sul Corriere della Sera, è che il percorso avviato nella città adriatica con Parole O_Stili è solo il primo passo di una riflessione di lungo termine su ciò che comunichiamo e sulla direzione che vogliamo imprimere alle nostre parole. Senza trincerarci dietro le formule di comodo del momento o limitarci a borbottare il canonico “o tempora o mores”.

Appunti sparsi e impressioni da alcuni dei panel ai quali ho partecipato, senza pretendere di fornire un resoconto esaustivo della giornata di sabato 18 febbraio. Il vero punto di forza dell’evento è stato senza dubbio il format agile, con interventi condensati in otto minuti e il rapido avvicendarsi di relatori sul palco. Ecco dunque Annamaria Testa indicare ironicamente il “paradosso della visibilità” scontato dai mezzi di informazione, che assicurano molto spesso la ribalta a ciò che in realtà deplorano e intendono condannare. È il dilemma che ha attanagliato i grandi quotidiani e network statunitensi, trasformatisi nel corso della più cruda campagna elettorale della storia americana in un involontario megafono per le dubbie provocazioni di Donald Trump. L’editore Franco Cesati ha raccontato in modo ispirato alla platea la sensazione di appagamento derivante dal “toccare” le pagine di un libro e richiamato l’attenzione sul ruolo della lettura per dare forma alle idee che esprimiamo a parole. Carlo Toscan, uno dei social media manager della Camera dei Deputati, ha ripercorso l’onda lunga di una “bufala” e la sua incredibile capacità di resistere allo scorrere del tempo e alle smentite ufficiali. Un fenomeno che ha un impatto determinante sul clima nel quale avviene il confronto politico. Al Presidente di Ferpi Pierdonato Vercellone il compito di rievocare “l’età dell’analogico” degli anni Novanta e la straordinaria capacità dei brand di comunicare con poche parole il legame emotivo con i consumatori: un approccio “parsimonioso” ma non per questo meno efficace. Bruno Mastroianni della Pontificia Università della Santa Croce ha descritto la nostra epoca come contraddistinta da un sovraccarico di “mondi iper-connessi”, in virtù del quale diventa un’esigenza vitale educarsi a parlare e discutere con chi non è d’accordo con noi. Una sorta di “disputa felice”, incanalata sui binari del rispetto e dell’accettazione, con possibilità di critica costruttiva, delle opinioni divergenti.

Ricca di stimoli anche la sessione che ha messo al centro del dibattito il ruolo del giornalismo nel momento in cui la sua funzione sembra essere messa in dubbio non solo da lettori spesso disaffezionati, ma anche dalle istituzioni che della libertà di stampa dovrebbero essere garanti. Risalivano infatti a poche ore prima i tweet incendiari con cui il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva attaccato i principali media americani a lui ostili bollandoli come “nemici del popolo”. Il mattatore del TgLa7 Enrico Mentana si è espresso con fermezza sul tema, ammettendo che la stampa si è crogiolata per troppo tempo nella sua torre d’avorio: rinchiudersi nella fortezza Bastiani, ha osservato ironicamente, non impedirà ai barbari di attaccare il nostro fortino. Se è sulla capacità di affrontare le sfide di questo tempo e dei prossimi decenni che si misura l’importanza e la vitalità del giornalismo, allora è necessario che non si barrichi in un negozio di antiquariato riservato a pochi appassionati. Altrettanto provocatorio Daniele Bellasio del Sole 24 Ore, che ha smontato l’auto-referenzialità della stampa produttrice di incomprensibili “pastoni” per addetti ai lavori e troppe volte dominata dalla tentazione di salire in cattedra e farsi essa stessa show. Se spettacolo deve essere, allora prendiamo ad esempio la regina del piccolo schermo Maria De Filippi: autorevole, amatissima, ma sempre defilata e sullo sfondo. E se è il giornalismo stesso a diventare portatore di linguaggio ostile quando tratta casi di cronaca giudiziaria, urge una riconsiderazione sulla differenza tra ricerca scomoda della verità e rispetto per chi è sotto la luce dei riflettori, come emerso dal confronto fra Wanda Marra del Fatto Quotidiano e Angela Azzaro de Il Dubbio. A rimarcare ulteriormente la responsabilità di chi fa giornalismo Anna Masera, garante dei lettori del quotidiano torinese La Stampa: “ecologia dell’informazione” significa smettere di confezionare titoli accattivanti e acchiappa-click per conquistare un’audience che ha perso inevitabilmente fiducia nei media. Meglio fare leva sull’autorevolezza delle proprie testate (La Stampa ha da poco oltrepassato la boa dei 150 anni) anche per dare vita a giornali più essenziali e meno dispersivi, in cui l’informazione è densa e per questo mai irrilevante.

Sembrano dunque due i principi emersi dai dibattiti appena descritti: educazione e responsabilità. Educazione per diffondere parole che hanno radici nella ragione e nelle emozioni, senza per questo rinunciare ad un confronto aspro ma mai distruttivo. Responsabilità perché se il male del nostro tempo è la viralità delle notizie prive di fondamento ciò deriva anche dalla pericolosa tendenza a trasformare l’informazione in macchina a ciclo continuo di intrattenimento e strumento al servizio di una (più o meno legittima) esigenza di visibilità.

Per tentare di arginare l’ostilità del dibattito pubblico, che non è dovuta esclusivamente al web ma ne è da esso amplificata, possiamo forse partire da qui.

 

 

 

 

 

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