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Sei ragioni per le quali dobbiamo essere grati a Michele Serra
Discutere della nota amaca di Michele Serra è sicuramente di grande utilità. Sia per quanto afferma riguardo l’oggetto del suo intervento sia per la capacità di detto intervento di illuminare una serie di tendenze che da tempo condizionano la nostra sfera pubblica. In particolare, l’intervento di Serra mi é parso significativo per sei ragioni.
Primo, per il modo di fare giornalismo che ben rappresenta la riconducibilità di Michele Serra a un nugolo influente di giornalisti, tutti più o meno della medesima generazione e traiettoria politica, la cui presenza pubblica consiste nella continua produzione di immagini edulcorate oppure viceversa esasperate (spesso nella forma della vera e propria allegoria) della vita sociale. Immagini che generalmente all’opinione pubblica non lasciano nulla o quasi nulla né in termini di informazioni (ne sappiamo di più del “problema” di cui parla Serra in virtù della sua trattazione? No) né in termini di potenziali per l’azione (ne sappiamo di più di che cosa potremmo fare per affrontare il “problema? No) e che, nella maggiora parte dei casi, si risolvono in un pò di soddisfazione e sollievo per chi, leggendo, si rallegra di non avere nulla a che fare con le situazioni sociali di cui si fa l’allegoria (“ah, mio figlio va al liceo, per fortuna….”). Il ruolo e lo statuto di questo tipo di giornalismo è dato largamente per scontato nella nostra sfera pubblica, senza che la declinazione di “opinione” che propone – immagini, allegorie, storie edificanti o viceversa da stigmatizzare, invocazioni (non in questo caso) del “senso comune” – sia mai messa in relazione con fenomeni più complessivi di impoverimento della sfera pubblica. Sarebbe invece venuto il momento di farlo, considerato l’impatto sistemico che alcuni esiti di questo tipo di giornalismo – si pensi alla retorica della “casta” – ha avuto sulla nostra vita collettiva.
Secondo, per l’ampia inappropriatezza e genericità dell’uso di termini che nel discorso di Serra sarebbero “centrali” (si veda la replica) e che, viceversa, testimone l’inappropriatezza del loro uso, non lo sono (a prevalere ancora una volta é infatti un’immagine, un’allegoria). In particolare, parlare nel 2018 di “poveri” – forse perfino Jane Adams nella Chicago di cent’anni fa avrebbe avuto qualche imbarazzo a usare tale categoria – tradisce tutta la genericità del suo ragionamento. Di quali “ceti” parla Serra? Oppure intende “classi”? E quando parla di “ceti superiori”, parla di “ceti superiori” in quanto a disponibilità di capitale economico oppure culturale (perché due capitali, specie in Italia, divergono di frequente)? Tutto questo non é chiaro e anche nella replica, tutta orientata a caratterizzare nel senso della “sinistra” il suo ragionamento, il riferimento a Engels non fa che impoverirlo ulteriormente perché é evidente che parlare di contraddizioni di classe nell’Italia del 2018 non possa certo risolversi in un rapido riferimento a Engels (“se Friedrich Engels pubblicasse oggi, etc etc”), un riferimento che rischia di confermare la descrizione quasi folklorica (per l’appunto esasperata, allegorica, se non noir) del suo oggetto. Una teoria di classe ci vuole eccome, e chi scrive è il primo a pensarlo, ma per l’appunto deve essere una teoria magari non ferma a trent’anni fa considerato che le scienze sociali negli ultimi trent’anni, perfino in Italia, qualche fenomeno lo hanno più o meno spiegato. Da questo punto di vista egualmente interessante é stato il riferimento fra chi è sceso in difesa di Serra al fatto che la letteratura ed il cinema avrebbero illuminato in questi anni le tendenze all’anomia ed alla violenza fra i ceti proletari e sotto-proletari (e oggi purtroppo, infatti, una parte del paese é convinta, anche a causa di tale tendenza, che Roma sia Suburra e Napoli sia Gomorra). Di nuovo, in una società democratica la teoria di classe che dovrebbe godere di maggior riconoscimento non dovrebbe essere quella implicita nei libri di Roberto Saviano e Walter Siti – che fanno ottimamente (con menzione in particolare del secondo) il mestiere dello scrittore – bensì quella delle scienze sociali con la quale la politica e i media dovrebbero farsi carico di scambiare qualche concetti e capacità di analisi.
Terzo, perché il suo ragionamento si inserisce in un’ormai continua, pervasiva e acritica apologia dei ceti superiori cui si associa la stigmatizzazione più o meno dissimulata di quelli inferiori: “i poveri votano per i populisti perché sono ignoranti”, “i meridionali votano per i 5Stelle perché non vogliono lavorare e vogliono i sussidi”, “i poveri sono razzisti ed anti-scientifici” (i poveri appunto, di quali ceti o classi si parli esattamente non si capisce mai). In queste rappresentazioni – che riguardano, attenzione, sempre i comportamenti dei ceti inferiori e quasi mai le condizioni strutturali entro le quali tali ceti si riproducono – sono all’opera le stesse poverissime e indimostrate generalizzazioni ed essenzializzazioni proprie ai discorsi che i “populisti” fanno ad esempio su entità fantasmatiche quali gli “stranieri”, la “casta” per arrivare anche al celebre “pdioti”. Da questo punto di vista, i due campi dei “populisti” e degli “anti-populisti” in Italia sembrano assomigliarsi sempre di più perché abitano e riproducono la stessa fondamentale debolezza della nostra sfera pubblica. E perché, in particolare, condividono una perenne semplificazione della realtà all’insegna del rancore e della generalizzazione di un registro moralistico che non vuole spiegare nulla ma solo tenere a distanza, stigmatizzare e condannare (“padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita”). Un registro che peraltro tende sempre di più a conferire un ruolo esorbitante agli orientamenti politici come se ogni fenomeno sociale avesse a che fare in qualche modo con la coppia oppositiva “populisti/anti-populisti” – in fondo Serra poteva discutere il tema da mille prospettive, interessante e sintomatico che abbia scelto proprio questa – finendo per spiegare la società con la politica invece di fare, come peraltro Engels avrebbe preferito, il contrario (ovviamente oggi, con un secolo abbondante di scienze sociali sappiamo che la questione, per fortuna, é molto più complessa e per questo interessante). Anche per questa ragione il “neo-classismo” che si osserva nel discorso pubblico nell’Italia di oggi non genera alcun beneficio in una prospettiva altamente progressista, perché si fonda su una visione folkloristica – ad uso e consumo della classe politica e dell’industria mediatica – della struttura di classe e composizione sociale della società italiana. E purtroppo mi pare che il discorso di Serra abbia tali medesimi effetti paralizzanti dal punto di vista politico.
Quarto, perché se c’é un paese dove questa apologia dei ceti superiori é del tutto infondata é l’Italia, un paese che dispone – dispiace dirlo – di una delle peggiori borghesie e classi dirigenti d’Europa. Una borghesia che in larga parte – e con importanti ma non sufficienti eccezioni – ha permesso prima che altrove l’arrivo al potere di neo-fascisti e razzisti (e ben prima che il “popolo” li votasse in massa), che ha troppo spesso occupato lo stato con le sue camarille, che non ha esitato a costruire clientele (avvalendosi anche dell’asimmetria di potere che Serra riconosce) e accordi corruttivi che hanno minato la fiducia del “popolo” nelle istituzioni e in quelle “regole del vivere civile” cui allude Serra e che, troppo spesso, dimostra una scarsa fedeltà nei confronti dello stato cui sottrae risorse attraverso mille forme di evasione dei propri obblighi e di parassitaggio della propria influenza. Una borghesia, aspetto che appare totalmente inesplorato, che da tempo non è più in grado di esercitare alcuna forma di leadership culturale e politica nel paese e che, impaurita, si rifugia in impossibili discorsi neo-ottocenteschi. A questo proposito, l’idea che il rispetto delle regole sia, come scrive Serra, “direttamente proporzionalmente al ceto sociale di provenienza” appare, nel suo essere esageratamente apodittica, anche per questo particolarmente infondata: basta fare quattro passi nel centro di Roma per osservare la quotidiana e clamorosa ribellione dei ceti superiori a regole anche elementari del vivere comune (un suv parcheggiato su ogni passaggio pedonale, una minicar per adolescenti parcheggiata su ogni scivolo per portatori di handicap). Ovviamente si tratta di aneddoti, come di aneddoti utilizzati a suffragio di generalizzazioni fuori scala si tratta anche nel caso dell’amaca di Serra, e come tali vanno considerati. Ma mi pare che, complessivamente, certo Serra non possa ambire a smentire in una sola “amaca” 150 anni di riflessione dolorosa sulla debolezza dello stato italiano quale debolezza grave e fondamentale della borghesia italiana (e della sua cultura). Quindi occorre sapere che se si affronta il “problema” in oggetto in questi termini si decide sicuramente di dare sollievo a qualche lettore – (di nuovo: “per fortuna mio figlio va al liceo ed io appartengo ai ceti superiori e sono quindi un genitore preparato alla vita”) – ma si semplificherà il quadro complesso del tema della legittimità sociale delle regole fino a non capirne sostanzialmente nulla.
Quinto, perché nel suo concentrarsi sulle tare culturali della capacità genitoriali dei “poveri” (i “genitori ignoranti, aggressivi, impreparati a vivere”) suggerisce l’idea che il “problema” in fondo sia proprio questo (il discorso sulla società di classe ce lo siamo già dimenticato arrivati qui, ulteriormente offuscato dalla fine francamente noir su carceri e riformatori) e non fattori strutturali che, ad esempio, abbiano anche a che fare proprio con le scelte dei ceti superiori che sicuramente non sono estranee alla riproduzione di tale sistema classista (a riguardo ci sono diverse ricerche internazionali e non solo, che valgono sicuramente più di un video su youtube). Sappiamo benissimo quanto contano le condizioni dei nuclei familiari nei processi di socializzazione – il motivo per cui, storicamente, una battaglia della sinistra é stata quella della scolarizzazione precoce, pubblica e universale – e quindi di riproduzione delle differenze di classe ma se si affronta rapidamente il discorso abbordandolo dal lato della “buona educazione” (Serra parla di “mala éducacion”) il rischio é che l’effetto sia di nuovo quello di un discorso “moralistico” più che di un’analisi sociale. Discorso moralistico che non a caso é quello che la destra americana (e, fortunatamente, molto meno quella europea) ha fatto proprio fin dagli anni settanta dello scorso secolo: il problema é che i figli del popolo (gli afro-americani, nel caso americano) – figli di “genitori ignoranti” e inadattabili – non sono in grado di elevarsi per raggiungere l’optimum rappresentato dalle forme di vita dai ceti superiori e, al massimo, possiamo aiutare su qualche povero meritevole che “voglia tirarsi su”. Nel quadro che tratteggia, dice Serra, i populisti suffragano i poveri nel loro naturale desiderio di “non tirarsi su” e di non farsi strada. Questo é forse il punto più debole del ragionamento di Serra che, in linea con gran parte dei media e della classe politica di centro-sinistra, che pare proporre l’idea che il voto per i “populisti” abbia un rapporto di necessità non solo con una supposta condizione di “ignoranza” e “inconsapevolezza” – che avrebbe a che fare con la scarsa disponibilità di capitale culturale – ma anche con una certa incapacità di vivere nella società contemporanea (una sorta di “unfittness”, l’inglese qui è più efficace dell’italiano). Una spiegazione che, generalizzata ed estremizzata, appare smentita da una messe troppo abbondante di evidenze per essere ancora sostenuta (eppure….). Smentita dal fatto, ad esempio, che i “populisti” e in particolare il M5S prendano milioni di voti fra giovani scolarizzati – e sicuramente anche fra quei giovani che dai licei vanno poi all’università (dove dovrebbe affermarsi l’ethos “liberale” dei “ceti superiori”) – che sono anche l’esito del forte investimento che nonostante tutto i ceti medi e popolari hanno realizzato nella scolarizzazione dei figli. Come la mettiamo con loro? Come é possibile che i “populisti” che inviterebbero ad abbassarsi e “non tirarsi su” prendono voti fra quelli che hanno viveversa tentato di alzarsi? Forse perché, appunto, hanno tentato di alzarsi e non ce l’hanno fattama che quel desiderio é ancora lì presente e non rappresentato dalle tradizionali agenzie di rappresentanza e integrazione? Insomma, continuare con l’essenzializzazione e banalizzazione di chi vota per i “populisti” non ha alcun senso, né sul terreno dell’analisi sociale né tantomeno su quello dell’azione politica.
Sesto, per la scarsa attenzione riservata – nonostante la replica – nei confronti della possibile ricezione del suo discorso e, in particolare modo, della ricezione fra i ceti sociali che ne sono oggetto. Una scarsa attenzione che tradisce una delle tendenze forse più gravi dell’organizzazione sociale, ovvero quella della crescente introversione dei mondi sociali e dell’assottigliarsi di spazi di compresenza se non di condivisione – di progetti collettivi come di esperienze di vita – fra questi mondi sociali (che poi é, esattamente, quello che vuole il vero “populismo”, ovvero quello apertamente e risolutamente reazionario). Le parole gratuitamente ruvide ed eccessive di Serra (che riguardano, è importante notare, innanzitutto il comportamento dei “poveri” e non la società o i ceti superiori che dirigono tale società) sembrano testimoniare dell’ormai realizzata perdita di connessione sentimentale fra l’autore dell’articolo e mondi sociali diversi dal suo e, in seconda istanza, della perdita degli effetti di “moderazione” del discorso che tale connessione generalmente determina. Qui non si tratta di moderare le analisi – anzi il mio invito è a fondarle e approfondirle, il contrario della moderazione che è il frutto della genericità – ma di produrre analisi che non abbiano come effetto l’ulteriore perdita di dignità dei soggetti di cui si discute (e che sono “soggetti”, è importante ricordarlo e che, addirittura, potrebbero partecipare a tale discussione). Si guardino a questo proposito, sulla pagina facebook dell’Amaca, le reazioni da parte di persone che si sono sentite offese e insultate dall’articolo di Serra e si valuti che, probabilmente, Serra in effetti non dovrà affrontare nessuna situazione “reale” (di quelle in cui ci si guarda negli occhi) al di là di quelle virtuali, nessuna perché appunto la compresenza che prima discendeva dal fare parte, un esempio fra gli altri, di partiti inter-classisti (Serra ha fatto a lungo parte di un partito inter-classista come il Pci) é ormai venuta completamente meno. Anche in questo caso é di interesse, nella sua replica, l’argomento secondo il quale “si sarebbe capovolto il mondo” visto che parole di sinistra come le sue sarebbero oggi considerate di destra (che poi fosse così facile, come si vede la questione è molto più complessa). Per confutare questa rappresentazione dei fatti si immagini semplicemente cosa sarebbe accaduto se un articolo con il registro ed il lessico dell’amaca di Serra fosse stato pubblicato su L’Unità anche solo vent’anni fa. Quale sarebbe stata – è lecito chiedersi – la reazione dei lettori e della base del partito a un discorso che sottolineava, con quel tono e quel lessico (e non si dimentichi l’incipit del “tocca dire una cosa sgradevole”) come nei tecnici e nei professionali – diversamente dai licei – finissero i figli di genitori ignorati impreparati alla vita perché più poveri?
Non si tratta quindi di fare banalmente discorsi “di destra” o “di sinistra” ma di fare discorsi indubbiamente più complessi, che si fondino su elementi di realtà che abbiano un qualche fondamento scientifico, che si organizzino per differenza rispetto alle immagini prodotte dall’industria mediatica e riprodotte da gran parte della classe politica e che muovano inanzitutto dalla consapevolezza che una delle poste in gioco più controverse – e per questo non trattate, oppure strumentalizzate nel quadro di disegni palesemente reazionari – nella società contemporanea é quella della dignità sociale delle persone e dei loro mondi di vita. Costruire analisi rigorose e contestualmente alimentare la dignità e la speranza di chi nella nostra società ha meno potere é proprio quello di cui avremmo bisogno. E difficilissimo a farsi, ma mi pare sia l’unica cosa da fare.
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