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Se la pietas online se ne va
In quei giorni del 1980 – quando l’Irpinia crollò squassata dal terremoto – la maestra ci fece comprare un album. Voleva che incollassimo, sui fogli bianchi, i ritagli degli articoli di giornale che raccontavano la tragedia. Aveva la copertina azzurra, il mio album. Me lo ricordo bene. E bene mi ricordo l’angoscia nel leggere le parole piombate sui ritagli incollati. Mai avrei immaginato che, anni dopo, toccasse anche a me scrivere di un sisma. Nella mia terra, l’Emilia-Romagna, per giunta.
Non esistevano i cellulari, in quei giorni. Il telefono andava a gettoni, forse comparivano le prime tessere telefoniche. Le notizie le davano i quotidiani e la Tv. Ossia la Rai. In strada e nei bar si commentava. Con sgomento e rispetto. Con pietas.
Tornato a casa dal lavoro, ieri sera, ho aperto il pc e ho cominciato a dare un’occhiata alla Rete. Ho scorso le ‘ultima ora’ con la conta, mesta, delle vittime e dei feriti dei crolli per le scosse che hanno attraversato Lazio, Umbria e Marche. Le immagini della devastazione. I racconti degli inviati.
Poi, ho, virato su Facebook e i social network. E, su varie bacheche – non su tutte, va detto – mi si è spalancata una specie di Apocalisse. La fine della pietà. Il punto di non ritorno: zuffe politiche, strumentalizzazioni, ironie fuori luogo, razzismo dilagante. La voglia di dire la propria – cosa lodevole e anima dei social – che scolora nell’invettiva e nel travaso di bile: le scosse che squarciano la terra come sorta di punizione per le unioni civili; la vegana che inchioda Amatrice al karma per aver dato i natali all’amatriciana; il ritornello dei profughi in alberghi multistelle e gli italiani nelle tende; il complotto dietro alle donazioni via sms che, ‘tanto si sa che non vanno a chi ne ha bisogno’.
Cose così. Che sul Web rimbalzano – più o meno violentemente – quasi ogni giorno. Se non fosse che ieri, oggi, sono i giorni della vicinanza, del sostegno, dell’aiuto sincero. Della pietà. Sparita, almeno sulla Rete. Non del silenzio, che di questi accadimenti, è normale si parli. Fosse solo – o soprattutto – per fornire informazioni di servizio. Cose così, che escono fuori da una tastiera. Ché davvero, al bar, faccia a faccia, occhi negli occhi, non verrebbero, forse, nemmeno pensate. Molto probabilmente nemmeno dette.
E nell’Helzapoppin mediatico, a cadere – talvolta – tocca pure a noi cronisti. La giornalista della Tivvù che si fotografa in posa ‘fashion’, sotto lo stipite di una porta per spiegare dove mettersi in caso di sisma, rischia di oscurare – online per lo meno – il lavoro dei tanti inviati che, sul campo, cercano di raccontare nel modo più puntuale e preciso. Di chi, con le parole e le immagini, tenta di informare.
Il giornalista che dice ‘c’è una scena straziante, guardate qui, prego l’operatore di stringere’, oscura i cronisti che provano a chiedere alle persone sconvolte di raccontarsi, avvicinandosi con tatto e dignità. Comportamenti che quasi forniscono – quasi – una sorta di ‘alibi’ a chi sulla Rete, non vede l’ora di scatenarsi a suon di ‘pennivendoli’ e ‘giornalai’, gridati all’indirizzo di una intera categoria. Gonfiando quell’onda di livore che travolge tutto, senza se e senza ma, che tanto, ‘quelli sono tutti uguali’.
E non basta chiudere il pc o disconnettersi da Facebook. Quando la pietà se ne va.
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