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Vuoi esistere in Rete? Esponi le tue carni. (E i vecchi vincono)
Dire, come ha fatto Serra l’altro giorno, che preferisce Aspesi a qualsiasi altra giovinotta o giovinotto di belle speranze è un’autentica bastardata, giacchè il marrano sa benissimo che l’arzilla vegliarda ricomprende amabilmente tutte le cicisbee social di questo tempo, avendo in più – perdonate se è poco – il genio del giornalismo. Che siano i diritti civili o Pippa Middleton. È comunque significativa la vecchiaia del buon “Michele errante” (come da sua mail un tempo), perché racchiude perfettamente le nostre acidità rispetto al tempo che scorre. Un suo pezzo assomiglia sempre a una ricetta di cucina, c’è sussiego q.b., un’aroma di superiorità morale, l’idea di fondo – questa la base d’ogni piatto – che come le vecchie generazioni, niente.
Sin qui, insomma, la prevedibilità del Serra è parte del grande gioco di società tra chi spinge per mettere la testa fuori e chi cerca di ricacciarla indietro. E pure il lamento di quel lettore del Venerdì, per cui il mondo sarebbe ancora dei brontosauri non è che sia questa grande novità. Di buono però ci sono ancora due cose: che Serra fa ancora incazzare una serie di persone più giovani, il che dovrebbe rallegrare tutti i sessantacinquenni come lui, e il fatto, questo sì abbastanza clamoroso, che una risposta su un giornale di carta, notoriamente defunto, vada a trovarsi la sua visibilità, e che visibilità, sui social. Soprattutto nel giorno in cui, come racconta oggi il Sole 24 Ore, «dopo 169 anni di storia gloriosa e oltre 130 Premi Pulitzer, per la prima volta i ricavi digitali del New York Times hanno battuto quelli della carta».
Il punto di Serra è che tutto nascerebbe da un immenso colpo di culo. Il vivere l’epoca di grandi cambiamenti, di rivoluzioni vere e proprie, ha portato quei giovani a tuffarsi in un fiume impetuoso, sociale e culturale, ricavandone esperienza e posti di lavoro interessanti. Oggi che la società ristagna, cari giovinastri, beccatevi dunque quel poco che c’è. Sì, è pur vero che cercare, molto semplicemente, di “cambiare il mondo” ha giovato. Ha giovato soprattutto nell’avere qualcosa in cui credere, per poi magari disilludersi, ha giovato nel trovarsi in tanti e tutti nello stesso momento a gridare dei “No”. A stare in piazza, quelle vere. A mettersi di traverso. A contestare le istituzioni, a fare a botte con la polizia, a non credere alle veline di stato. E molto altro. Tutto maledettamente figo. Ma per molti che hanno trovato posti, e che ancora campano di quello, moltissimi altri, oggi, girano malinconicamente col fiasco raccontando come una litania quanto eravamo belli.
C’è un vero cambiamento tra quei tempi e questi, che riguarda il modo di percepire i giovani che vogliono diventare qualcosa. O anche di quelli, un po’ meno giovani, che son già qualcosa, magari giornalisti o scrittori. E di cui Serra non parla. Ed è esattamente il modo di stare dentro la società. Stare dentro la società, per moltissimi di questi, è stare dentro i social. Viverli impetuosamente, sono le loro piazze, le loro grida, il loro modo di dire “No”. Solo che i social sono bastardi. Per loro natura, per la natura larga e condivisa, tendono a imborghesirti, proprio perché ognuno dei protagonisti, singolarmente, ha la necessità “fisica” di avere un popolo di riferimento. Non esiste il cavallo scosso. O se c’è, è marginalizzato. Crearsi un piccolo o grande popolo di riferimento è un lavoro, anche raffinato, di tessitura, di concessioni di sè, di blandizie, di indignazioni che scattano secondo il codice del politicamente molto corretto, insomma è qualcosa di decisamente diverso che “abbattere lo stato borghese”.
Prendiamo gli scrittori o i giornalisti. Anzi no, prendiamo le scrittrici o le giornaliste. Perché si avverte, in questa condizione, un effetto più femminile. Forse per interessare di più, per rendere più scandaloso il proprio pensiero, molte offrono al pubblico non pagante dei social ampie parti di sé. Sono parti rilevanti, non bagattelle. Questioni personali, dolori assoluti, magagne, tormenti. Più raramente felicità, perché, si sa, le felicità son troppo di bocca buona. E dunque bisogna stupire, drammatizzare, condividere l’inconfessabile, solo così si creerà l’«effetto abbraccio», un’intera comunità che si stringe intorno all’Addolorata. Oggi esisti, almeno questo è il pensiero dominante, solo se offri le tue carni sofferenti. (Siamo al punto che qualche giorno fa, una ragazza ha confessato le violenze del padre all’interno di un pezzo su Antonella Elia, ricavandone naturalmente un’ovazione della rete. Il pezzo, va detto, tecnicamente era scritto molto bene.)
Solo che così facendo, le nostre scrittrici o le nostre giornaliste prendono subito l’uovo, ma non avranno mai la gallina. È matematico. Perché chi osserva da fuori, e magari è un possibile lettore, rimane turbato da tanta offerta di sé. Riduce quell’esigenza di curiosità che avvolge normalmente il rapporto scrittore/lettore. Toglie pathos, la conoscenza di troppe intimità. Restringe la voglia di coglierle magari in un libro, quelle stesse curiosità. Che sapevamo dei tanti scrittori che abbiamo letto? Nulla o giù di lì. Vero, non esistevano i social, ma che avrebbero potuto dire di più di quel che poi hanno raccontato nei loro romanzi?
Un’ultima piccola cosa sui giornali di carta. Oggi su Repubblica, un bello scritto di Nadia Terranova mette in luce un aspetto concreto di questo popolo social che spinge per avere i suoi spazi, ma poi immagina di fare la rivoluzione, sfondando una porta già sfondata come quella dei giornali di carta, che sono visti ancora come approdo felice. «Vacillano – scrive – ma continuano a essere un ideale. Si contraggono, ma restano un luogo in cui si vuol cercare posto. Vengono commentati sugli stessi social che danno loro ogni giorno una nuova spallata. Ha senso buttar giù la porta di un mondo considerato in declino?»
La realtà è che la Rete, questo tipo di rete che avrebbe pretese intellettuali, non percepisce sé stessa come strumento di potere. Non ancora, almeno. In questo, esempio classico è il Post, il salottino di chi la sa lunga. Ebbene, sono proprio Sofri e Costa ad ammettere un’inferiorità, costruendo il sabato dei lettori, con cui organizzano piccoli simposi, attraverso la lettura e l’analisi dei giornali di carta. Sofri lo dice: perché da quei dai giornali di carta passano i meccanismi del potere.
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