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Saviano e quel metodo giornalistico “incredibilmente disonesto”
Ha suscitato parecchio scalpore l’articolo-inchiesta del giornale americano Daily Beast, scritto da Michael Moynihan e intitolato “Il problema col plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano“, in cui si accusa Roberto Saviano di plagio, in riferimento al suo ultimo libro, “Zero Zero Zero”, e più in generale di utilizzare un metodo giornalistico alquanto scorretto.
Per la verità, già nel 2013, su la stampa (nell’inserto “tutto libri”), Federico Varese, seppur garbatamente, aveva avanzato qualche dubbio sulle fonti da cui erano tratti alcuni brani del libro incriminato. E Il Sole 24 ore aveva fatto notare come la copertina del libro fosse molto simile a quella del libro di Domenico Spadavecchia, uscito l’anno prima.
Da quando, qualche giorno fa, l’inchiesta del prestigioso giornale americano è stata pubblicata, in molti l’hanno rilanciata sui social network, Saviano è stato subissato di critiche e attacchi, e quasi tutti i giornali, eccetto il Corriere della Sera, La Stampa e Il Sole 24 Ore, hanno dato ampio risalto alla vicenda (con i giornali di destra che naturalmente hanno avuto gioco facile nel maramaldeggiare sul giornalista finito sotto accusa).
Saviano ha risposto a modo suo attraverso due paginate del suo giornale, Repubblica (che ovviamente non riporta la notizia ma ne fa una scarna sintesi sopra il pezzo di Saviano).
Moynihan definisce il libro di Saviano “brutto”, “confuso”, “incredibilmente disonesto”.
Le sue accuse sono molto dettagliate e circostanziate. Saviano avrebbe fatto interviste a personaggi di dubbia veridicità, copiato quasi pedissequamente da articoli del Los Angeles Times, St. Petersbourg Times, dal giornale salvadoregno El Faro, da alcuni saggi investigativi di Robert I. Friedman, da Wikipedia (spacciandole per fonti americane e messicane) eccetera.
In uno scambio di mail col giornalista americano, Saviano ammetteva che almeno un personaggio era inventato (in precedenza gli aveva assicurato il contrario).
Saviano nella sua risposta su repubblica si concentra su uno dei tanti brani del suo libro accusati di plagio, asserendo che in quel caso la citazione era stata riportata fedelmente; citazione che, invece, a detta di Saviano, l’autore dell’inchiesta volutamente omette.
Tuttavia glissa sulle altre otto mancate citazioni puntualmente elencate da Moynihan (e quindi implicitamente le conferma).
Ma a lasciare sgomenti sono soprattutto gli argomenti (e i toni) utilizzati da Saviano nella sua spericolata difesa.
Ne riporto alcuni esempi: “quando un libro ha molto successo” (…), “il miglior metodo per bloccarlo è gettare discredito sul suo autore. Come se fosse possibile smontare davvero un libro di oltre 400 pagine con un articolo di qualche migliaio di battute”. Da notare come questo sia un argomento del tutto insensato. Cosa avrebbe dovuto fare Moynihan per stroncare il lavoro e il metodo di Saviano, scrivere anche lui un libro?
Oppure: “Quando non si può dire che ciò che racconto è falso, si dice che l’ho ripreso altrove”.”Le informazioni sono di dominio pubblico”. (…) Ma “i fatti accaduti, con buona pace dei miei detrattori, non appartengono a nessuno”. Quindi è lecito copiare o non citare autore e fonti?
Prosegue: “Ora (…) è chiaro perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere”. “A voi (lettori ndr) tutto questo non sembra l’ennesimo, furbo (…) modo per delegittimarmi?”.
Nella chiusa dell’articolo infine dice: “ho capito che ancora una volta ho fatto centro: il livore arriva quando c’è visibilità (…). Ma mi dispiace per i miei critici, anche per quelli americani. Fiero dell’odio e della diffamazione, degli attacchi che ricevo quotidianamente, difenderò sempre il mio stile letterario”.
La sua apologia risulta, oltre che scombiccherata, proterva e fondata su argomenti inconsistenti.
Saviano non confuta le tesi di Moynihan – e il perché è pacifico… – ma cerca di confondere il lettore e portare il discorso sul piano personale.
In sostanza dice: le accuse contro di me sono ridicole, dettate da invidia e acrimonia, chi le muove lo fa esclusivamente per screditarmi poiché sono un simbolo di successo dell’antimafia.
Saviano, lo si coglie dalla sua intemerata, si percepisce come intoccabile, per questo accomuna tutte le critiche e gli attacchi subiti (che siano provenienti dalla mafia oppure dalla stampa italiana o internazionale poco importa, il fine ultimo è la sua delegittimazione).
Nell’articolo di risposta sostiene che il suo è un genere peculiare, ibrido. E Saviano su questa ambiguità ci gioca.
I suoi libri – Gomorra e Zero Zero Zero – si presentano come inchieste, racconto di fatti realmente accaduti. Mai si menziona in essi che si tratta di romanzi.
Per cui, se, come fa intendere l’autore, non si tratta di una storia di fantasia, non è ammissibile la mancanza di una bibliografia.
Matteo Sacchi su Il Giornale ha rilevato opportunamente che Saviano avrebbe potuto quantomeno citare le fonti da cui avevo attinto per scrivere il suo libro nella pagina dei ringraziamenti. Non lo ha fatto perché come dice Moynihan nessuno inserisce a pie di pagina fonti e citazioni se l’intento è quello di realizzare un plagio.
Benedetta Tobagi, per fare un esempio, ha scritto un libro di carattere storico, in forma romanzata (“una stella incoronata di buio), segnalando alla fine del testo tutta l’imponente bibliografia utilizzata.
A un certo punto poi, su Repubblica, Saviano, forse per giustificare le somiglianze troppo evidenti segnalate dal Daily Beast, arriva a dire che esiste un solo modo per raccontare certi fatti (“C’è solo un modo per dire come è avvenuto un arresto e come un imputato era vestito in tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. C’è solo un modo per descrivere un documentario…”).
Ammesso – e non concesso – che sia così: quale sarebbe dunque il valore aggiunto di uno scrittore?
Le accuse a Saviano non dovrebbero stupire più di tanto.
Per quanto riguarda l’appropriazione indebita di materiale intellettuale altrui, infatti, il giornalista è recidivo – anche se ovviamente bisogna precisare che un conto sono le accuse – non smentite – di un giornale, ben altro una condanna da parte dell’autorità giudiziaria.
Qualche mese fa, per alcuni brani contenuti nel suo primo libro, Gomorra, Saviano è stato condannato in via definitiva per aver plagiato tre articoli di alcuni giornali locali di Napoli.
La vicenda è stata ben illustrata da Luigi Mascheroni nel suo ultimo libro (“Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale a Saviano, Aragno editore”).
Il processo inizia nel 2008. In primo grado Saviano viene assolto dalle accuse, per poi essere condannato in appello e in cassazione.
In quell’occasione, tra l’altro, La Repubblica nell’edizione di Napoli, Il Corriere del Mezzogiorno, Il mattino e Il Corriere della Sera nella versione online riuscirono a distorcere completamente la verità dei fatti facendo credere che Saviano fosse uscito vincitore in cassazione.
Accanto a questa storia già di per sé miserevole, si inserisce quella di Simone Di Meo, anch’egli giornalista di vaglia, anch’egli esperto di Camorra. Di Meo ha un ruolo cruciale nella stesura di Gomorra: secondo Mascheroni, egli mette a disposizione di Saviano il suo archivio e le sue conoscenze, viene spesso consultato, i due si scambiano notizie e impressioni. Senonché, quando il libro viene pubblicato, il contributo di Di Meo non è mai citato.
D’altronde Saviano è solo l’ultimo di una lunga serie di giornalisti sorpresi negli ultimi tempi a “rubare” il lavoro intellettuale altrui.
La maggior parte di costoro appartengono a un giornale che si è sempre distinto per il suo carattere moralmente intransigente: Repubblica.
Negli anni 80, il giornale fondato da Scalfari, era soprannominato dai detrattori Ripubblica perché pubblicava in ritardo notizie e fatti già apparsi in precedenza su altri giornali (Giampaolo Pansa dixit).
Ci sono cascati nomi illustri come Augias, Melania Mazzucco, Galimberti, Rampini ecc, tutti collaboratori del giornale diretto da Ezio Mauro.
Umberto Galimberti nel 2008 subì un richiamo formale da parte della sua università per aver saccheggiato le riflessioni contenute nelle opere di Salvatori Natoli e altri filosofi.
Ineguagliabile rimane Rampini, il cui comportamento è sicuramente il più grave, anche per il metodo più “sofisticato” e ripetuto nel tempo.
Il prolifico corrispondente dagli Stati Uniti per il giornale di De Benedetti è stato impietosamente sbugiardato da Marion Tuggey per aver sistematicamente trascritto articoli di giornali americani senza le dovute citazioni. Eppure, come se niente fosse, seguita a scrivere sul suo giornale e a pubblicare libri, a partecipare ad incontri e trasmissioni tv.
Recentemente anche Maurizio Molinari, de La Stampa, è stato accusato di plagio per il suo libro sull’Isis.
Nessuno di questi giornalisti e intellettuali risulta aver subito conseguenze né l’Ordine dei giornalisti, sempre pronto a intervenire per immani sciocchezze, si è mai fatto sentire.
Quello di Saviano non è come abbiamo visto un caso isolato ma è paradigmatico della degenerazione morale di una professione.
Copiare (non una frase ma un articolo, anche rimaneggiandolo) non è un peccato veniale; ma una condotta giuridicamente sanzionabile equiparabile al furto.
Dal punto di vista etico – morale non esiste comportamento peggiore per un giornalista. Ne compromette irrimediabilmente la credibilità e l’autorevolezza; quella che in una parola si è soliti chiamare “reputazione”.
Può sembrare un paragone un po’ estremo ma è come per un politico essere sorpreso a rubare.
Verrebbe da dire, con un certo sconforto, che ogni paese ha la classe dirigente che si merita… Vale per la politica come per il giornalismo.
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