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Sallusti: “Vi racconto Berlusconi, Feltri e Montanelli. E anche un po’ di me”

13 Luglio 2021

Ho conosciuto Alessandro Sallusti nell’ultimo posto nel quale mi sarei aspettato di incontrarlo: durante una gara ciclistica amatoriale di qualche anno fa. L’ho riconosciuto alla cena di briefing pre-partenza, mi sono avvicinato per salutarlo e da subito lui si è mostrato cordiale nei miei confronti. Questo è il ciclismo amatoriale, si è tutti uguali, si annullano le differenze, di stato, professionali, di età, siamo tutti lì, centinaia di persone che provano a portare a termine un’impresa. Dopo quel primo incontro l’ho ricontattato un anno dopo, ma da quel momento è nato un rapporto sincero, onesto e rispettoso, anche se… non siamo più usciti in bicicletta insieme.

Dopo un diploma in perito chimico-tessile come hai capito che invece la tua strada era quella del giornalista? Ti ricordi il tuo primo articolo?

L’avevo capito prima della fine della scuola, tra l’altro non sono stato ammesso alla maturità, ma non per motivi disciplinari, ma per le molte assenze; non andavo mai a scuola, perché facevo già il giornalista. Negli anni ’60 nelle piccole famiglie borghesi comasche, il primogenito era quello che doveva occuparsi dell’ascensore sociale della famiglia, mio fratello, completa quindi gli studi classici e poi medicina, al secondo genito invece toccava lavorare, che a Como voleva dire occuparsi di tessile, setificio, studi attinenti etc… Io fin da piccolo, non so dirti perché, già sognavo di fare il giornalista, fin da bambino e appena si è presentata la prima opportunità l’ho colta al volo. Sto parlando delle primissime radio private. Radio Como fu una delle prime radio private e, ironia della sorte, era una radio di estrema sinistra. Venni da loro intervistato in quanto in quel periodo praticavo atletica leggera ad un certo livello e dopo la convocazione in Nazionale mi chiamarono per farmi qualche domanda, entrando in studio capii che quello sarebbe stato il mio mondo e chiesi subito cosa si doveva fare per collaborare con la radio. A quel tempo lo sport era un po’ snobbato da quelli di sinistra e mancava nella programmazione qualcuno che si occupasse di sport, a quel punto smisi di studiare, smisi con l’atletica, per passare le mie giornate in radio, quindi avevo capito prima del diploma che la mia strada era quella del giornalista. A Como esistevano due giornali locali, uno ricco e uno povero, dove era più facile entrare. Allora non c’erano le regole di oggi, esisteva l’abusivato, non dovevi fare stage o cose simili, tu andavi in redazione e potevi scrivere; se volevi scrivere di sport minori, che nelle piccole città avevano un grande seguito, potevi farlo. Non ricordo il mio primo articolo, posso affermare però, con certezza, che si trattava di un articolo su uno sport minore.

Nel 1987 l’incontro con Montanelli a Il Giornale, cosa ha rappresentato per te lavorare con lui, in quegli anni? Perché non l’hai seguito a La Voce?

L’incontro ha rappresentato la realizzazione di un sogno, in quel momento venivo da Avvenire con l’incarico di inviato per la seconda guerra in Libano, lì conobbi per la prima volta la comunità degli inviati, che in assenza di internet si spostavano continuamente. Le guerre venivano raccontate dagli inviati sul campo. In questa comunità io entrai da “garzone”, c’erano i più grandi, ma venni lì a scoprire che oltre ad essere dei grandissimi inviati erano però anche dei grandissimi cialtroni, gente che viveva sopra le righe, senza badare a spese, donne, cene di lusso, champagne. Io ero spaesato, venivo da un giornale povero per di più cattolico, adottato da questa comunità internazionale che si spostava di continuo. In particolare venni adottato da Paolo Malzotto, inviato de il Giornale, cui feci da maggiordomo, feci colpo su di lui e incontrandolo due anni dopo mi chiese se ero disponibile ad andare al giornale di Montanelli. La prima volta che vidi Montanelli mi fece veramente un certo effetto, scoprii poi di essere di fronte ad una persona normalissima e piacevole. Non stetti molto a Il Giornale però, l’esperienza durò un anno e mezzo e in quel periodo di Montanelli ricordo due o tre cose, due tre consigli. Mi disse: “quando nella tua vita professionale scriverai un commento, non scrivere mai più di sessanta righe, perché quello che non riesci ad esprimere in sessanta righe, non lo esprimerai nemmeno in seimila. Scrivi una sola cosa, alla volta, perché se ne scrivi due mandi in confusione il lettore. Se devi parlare di una persona scrivi che è un cretino, se devi parlare di un Paese scrivi che è un Paese di merda…” era il suo modo di dire, sii sempre contro corrente, non serve scrivere un articolo per parlar bene di qualcuno, serve scriverlo per parlarne male. Poi tanta tanta umiltà. Ti racconto un episodio. Allora i giornali si chiudevano sui banconi dei tipografi, c’era il piombo, la carta, le strisciate, Montanelli alla sera scendeva per vidimare la prima pagina, oltre che per atteggiarsi da Monarca con tutti i tipografi. Ad un certo punto arriva da lui il capo dei tipografi chiedendogli di ridurre di dieci righe il suo articolo di fondo, altrimenti andava cambiata la geometria della pagina. Mi chiamò e mi diede in mano il bozzone del suo articolo chiedendomi di tagliare dieci righe. Basito gli dissi: “mah… forse io, Direttore, non me la sento.” “Non te la senti? – disse lui – e io che cazzo ti pago a fare, taglia queste cazzo di dieci righe”, non controllando poi nemmeno il taglio. Per me fu una grande lezione di umiltà. Non l’ho seguito a La Voce perché sono andato via prima, se non ricordo male nel 1988-1989, perché l’allora capo redattore de Il Giornale, Giovanni Mottola, mi chiamò confidandomi di aver ricevuto un offerta da il Messaggero a Roma e di avere la possibilità di portare con sé una persona di sua fiducia, quindi lo chiese a me. L’idea di andare a Roma, in una realtà che non conoscevo, mi allettava, inoltre nel mio percorso professionale pensavo che un’esperienza romana non poteva mancare. Mollai Il Giornale e Montanelli si incazzò moltissimo, la prese come un’offesa. Pensa che oggi, il figlio dell’allora capo redattore Giovanni Mottola, lavora con me come capo redattore.

Secondo te Montanelli ha fatto bene a lasciare Berlusconi quando è sceso in politica? Cosa non ha funzionato nell’esperienza editoriale di La Voce?

Penso non abbia fatto né bene né male, non poteva non farlo, è diverso. Secondo me il vero motivo per il quale ha lasciato il giornale riflette una particolare considerazione: se parlava bene di Berlusconi i lettori lo potevano considerare un venduto, diversamente parlandone male i lettori potevano considerarlo un ingrato. In ogni caso si sarebbe esposto ad una critica per lui insopportabile. Lui diceva che Berlusconi era il re dei bugiardi, dicendo probabilmente una verità, omettendo di confessare, però, che al secondo posto ci fosse lui stesso in quanto a bugie. Montanelli era spregiudicato. Ha raccontato la vicenda facendo credere che alla fine fu Berlusconi a cacciarlo e non lui a volersene andare, essendo un cinico spregiudicato ha mancato di  ringraziare l’editore che per 15 anni gli ha permesso di realizzare il suo giornale, ripiantando ogni fine anno le ingenti perdite senza nemmeno vedere i conti. Doveva semplicemente dichiarare, di non avere la volontà di dirigere un giornale di proprietà di un leader politico. Questo sarebbe stato onesto, invece Montanelli ha descritto abilmente la questione, facendo risultare che fu l’editore a chiedere al direttore di andarsene. In realtà poi Berlusconi non cacciò nessuno, ma Montanelli tirò la corda in modo che apparisse che fosse Berlusconi a cacciarlo. Decise quindi di farsi un proprio giornale e, mal consigliato, si fece aiutare facendo un giornale di sinistra, anti Berlusconiano, perdendo quindi di credibilità. Lui che era la bandiera della “non sinistra”. La sinistra a quel tempo fu abile e sfruttò l’occasione invitandolo ai festival dell’Unità e rieditandolo per il suo nuovo atteggiamento contro Berlusconi. Questo fu il suo grande errore e il suo pubblico non lo seguì nella nuova avventura editoriale.

Prima di ritornare a il Giornale accanto a Vittorio Feltri, hai fatto una serie di esperienze nei principali quotidiani nazionali: Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Avvenire e Libero, oltre che Il Gazzettino di Venezia e la Provincia di Como. C’è qualche aneddoto di quegli anni che vorresti condividere e che è stato fondamentale per la tua crescita, professionale, ma non solo.

Sono stati tutti passaggi fondamentali, non nasco “imparato”, il mestiere, non avendo nemmeno completato gli studi, (non sono nemmeno laureato), l’ho imparato a bottega, come si suol dire. In ognuna delle tappe che mi hai ricordato ho imparato qualcosa, in questo senso non è vero che i sei anni passati al Corriere della Sera sono stati più importanti dei due anni e mezzo a dirigere la Provincia di Como, a ogni step impari qualcosa, c’è un accrescimento costante di apprendimento sul campo. Sono tutte esperienze utilissime, alle quali oggi devo dire grazie per essere arrivato dove sono ora.

Com’era il Corriere della Sera in quegli anni?

Arrivo al Corriere della Sera nel 1989, alla fine dei famosi anni ’80 che avevano portato alle stelle il Corriere grazie anche al gioco “replay”. In pratica il giornale ristampava dei numeri per dare la possibilità di rigiocare i biglietti della lotteria, questo aveva portato il Corriere a vendere un milione di copie, non ne vendeva di più perché semplicemente non ne poteva stampare un numero maggiore, non esisteva la capacità produttiva di stamparne di più. Io arrivo in quel periodo, all’apice del successo del quotidiano. Vivo un paio d’anni di gloria e di sfarzo, con stipendi pazzeschi, rimborsi spese no limit, ho vissuto la coda di un giornalismo oggi inimmaginabile. Divento capo della cronaca di Milano, che constava di tre pagine e avevo con me la bellezza di 64 giornalisti che collaboravano solamente alla cronaca della città, per fare solo tre pagine. Divento poi capo redattore centrale, siamo nel ’92 l’anno di tangentopoli, allora il Corriere era diretto da Paolo Mieli, vado da lui per comunicargli le mie dimissioni, rimane esterefatto, cerca di farmi cambiare idea, argomentando il fatto che nessuno si dimette dal Corriere della Sera, un posto che tutti ambiscono, non ci crede, mi chiede se è un problema di stipendio, di ruolo, non si capacita che un giornalista in carriera abbandoni il quotidiano più importante del paese, “non si può abbandonare il Corriere della Sera –  mi dice – nessuno è mai andato via dal Corriere della Sera. Montanelli andò via dal Corriere, ma un redattore, un giornalista comune no”. Dissi che avevo bisogno di nuovi stimoli, alla fine capì e trattandosi di un evento talmente raro, il mio ultimo giorno di lavoro venni convocato in sala Albertini, dove erano presenti tutti i quadri dirigenti, direttori, vice direttori, redattori, capi redattori per un saluto. Mieli fece un discorso e mi regalarono una scatola di argento che conservo ancora come una reliquia con le mie iniziali firmata dagli “Amici del Corriere”. Anche loro non erano preparati ad un abbandono, è stato commovente. Paolo Mieli, mi chiese di rimanere ancora un mese per affiancare il nuovo capo redattore centrale per il passaggio delle consegne, arrivava dall’esterno più precisamente dall’Unità, si trattava di Fontana, l’attuale direttore del Corriere della Sera. Sono andato via per un’inquietudine personale, che mi porta ad essere girovago, ma non mi andava più di partecipare a un certo tipo di gioco.

Il Corriere in quegli anni è stato il megafono in mano alle procure durante il periodo di  mani pulite. Ogni giorno, se ben ti ricordi, c’erano arresti, avvisi di garanzia, quando uno di questi capitava a un noto personaggio politico il titolone in prima pagina era inevitabile, a un certo punto arrestano un tale che si chiamava Greganti, cassiere del Partito Comunista Italiano. Quella sera ero solo al giornale in quanto Mieli era in televisione, abbozzo il titolo sulla falsa riga dei precedenti “Arrestato cassiere del PCI”. Mi chiama Mieli in serata per un confronto sulla prima pagina, dicendo che il titolo così, come lo avevo pensato, non si poteva fare, o meglio, non poteva essere un titolo di testata, non poteva essere il titolone. “Scusa Paolo, ma è toccato a Craxi, a Forlani, ad Andreotti, perché no a un esponente del PCI?” Ecco in quel momento si è rotto qualcosa e ho iniziato a maturare la decisione di andarmene.

12 anni alla direzione de Il Giornale, un record se non si considerano i direttori/fondatori, la direzione accanto a uno dei tuoi maestri e con un Editore così discusso e forse ingombrante, che rapporto avevi con entrambi? Ti sei mai sentito “chiuso in gabbia”?

Sono stato sempre molto libero. Un giornalista è libero se è libero di esprimere le proprie idee, le proprie opinioni e, nel caso di un direttore, di fare un giornale che rispecchi questo. La verità non esiste, la verità è un punto di vista, infatti lo stesso evento viene raccontato in modi diversi ad esempio dal Fatto Quotidiano, dal Il Giornale, da Repubblica etc. Chi ha ragione oggi tra Grillo e Conte? dipende dal tuo punto di vista, non esiste una verità assoluta. Se tu lavori in un giornale che ti consente di esprimere liberamente le tue idee e le tue opinioni, allora sei un giornalista veramente libero. Il mio editore o meglio il capo famiglia del mio editore (Silvio Berlusconi) in dodici anni non mi ha mai chiesto di scrivere o di non scrivere qualcosa. In primo luogo perché non era necessario, sui grandi temi c’era unità di veduta, se poi qualche volta il giornale prendeva posizioni da lui non completamente condivise, soprattutto in politica estera, allora ci sentivamo e, pur rispettando la mia linea, ci teneva a spiegare il suo punto di vista, rispettando i ruoli e le autonomie. Nove volte su dieci era talmente convincente che spesso allineavi la tua posizione, ma non per servilismo, ma perché comprendevi meglio una cosa che non avevi considerato. Dirti che io, per dodici anni, sono stato libero è assolutamente la verità, libero dentro la mia libertà. Non sarei affatto libero se andassi a lavorare al Fatto Quotidiano, o a Repubblica, in questo caso non sarei libero, ma costretto, come era accaduto al Corriere molti anni fa.

Io e Vittorio Feltri eravamo a Libero fondato nel 2009. Il quotidiano aveva superato Il Giornale per numero di copie vendute, questo a Silvio Berlusconi non andò giù e poco dopo ci fece la proposta di andare al giornale tutti e due insieme, io e Vittorio. Così successe, portammo di là trenta, quaranta mila copie, in poco tempo ci fu di nuovo il sorpasso de Il Giornale su Libero. Il problema non esisteva nel rapporto tra me e Feltri, ma tra lui e il magico mondo berlusconiano. Feltri soffriva di una sindrome Montanelliana, non gradiva che qualcuno potesse solamente sospettare che quello che lui scriveva tutti i giorni potesse essere dettato dalla linea di Silvio Berlusconi. Il perdurare di questi sospetti gli fece prendere la decisione di tornare a Libero. Infatti nel 2011 apprendo da un’agenzia della sua intenzione di andarsene, non c’eravamo nemmeno parlati in questo senso. Poco dopo mi ammalo, mi viene un infarto, vengo operato, mi installano due by pass, dopo due giorni di rianimazione ancora intontito, apro gli occhi e davanti al letto di ospedale, non vedo la mamma, la moglie, la sorella, ma Vittorio Feltri che mi dice: “tu adesso sei malato, hai sicuramente bisogno di aiuto, torno a darti una mano a Il Giornale”. Quando esco dall’ospedale chiamo Berlusconi e gli comunico l’intenzione di Feltri di tornare con noi. Lui, pur stimandolo molto, mi sconsiglia vista la sua recente volatilità, ma come sempre mi lasciò libero di decidere. Vittorio Feltri quindi ritorna e rimane per circa due anni e nel 2016 ritorna a Libero, per la terza volta. Il nostro è un destino di inseguimenti, come marito e moglie, che per oltre vent’anni si lasciano, si riprendono, si lasciano e si ritrovano nuovamente, combattendo e poi facendo pace.

Sei tornato da Libero con un progetto ben preciso o solo per “amore” di Feltri?

Il nostro è un matrimonio dove la passione è sfiorita, però ne ho parlato a lungo con lui, mai sarei tornato a Libero contro il suo parere, contro la sua volontà, ne abbiamo parlato e abbiamo condiviso questa mia scelta. Vittorio va verso gli ottant’anni e Libero aveva la necessità di essere riorganizzato, riposizionato sul mercato, aveva e ha bisogno di tante cose che mi sono servite da stimolo per prendere la decisione. Non avevo nessuna necessità di abbandonare Il Giornale, stavo bene, forse troppo bene, quando cominciavo a desiderare di anticipare il week end non più al sabato, non più al venerdì, ma addirittura al giovedì ho capito che mancava qualcosa e allora si diventa preda di offerte interessanti.

Fra i disaccordi, le querele e le liti che hai avuto durante i tuoi interventi nelle trasmissioni tv quale ti ha lasciato più con l’amaro in bocca e quale, con il senno di poi, ti fa sorridere?

La mia lite con D’Alema è passata alla storia (la si può trovare ancora oggi in rete) eravamo a Ballarò faccio una domanda sgradita a D’Alema, lui si innervosisce, io insisto, lui perde il controllo, urla, mi insulta. Fu un episodio sgradevole, dal quale probabilmente D’Alema rimarrà segnato, è una reazione che un politico di quel livello non può permettersi di fare, sono fatti che ti segnano per sempre. Grillo rimarrà per sempre segnato per il recente video su suo figlio. Ci sono stati sicuramente altri episodi, ma ti confido che io in TV provo sempre un senso di inadeguatezza, come se mi trovassi in una bolla, non mi rendo mai perfettamente conto della portata di quello che sto dicendo, perché sono troppo concentrato e quando poi, a trasmissione finita, qualcuno mi fa i complimenti o le critiche io non ho il coraggio di rivedermi perché mi ritengo inadeguato, non mi piaccio. So che ci sono stati eventi televisivi in passato, che hanno segnato nel bene e nel male la mia carriera professionale, ma tendo a rimuoverli.

Cosa invece non rifaresti nella tua carriera?

Nella carriera come nella vita è troppo facile dire cosa non rifaresti. Tu pensi che la vita non sarebbe andata nello stesso modo togliendo quel tassello che faceva parte del mosaico. Non è così. La vita è un susseguirsi di eventi, alcuni belli altri meno, alcuni tragici. Non è possibile toglierne uno, perché ti mancherebbe la riprova di come la stessa vita sarebbe proseguita senza o con quell’evento. Forse i più grandi errori li ho commessi più sul piano personale, che professionale.

Invece, fra i tuoi procedimenti giudiziari per diffamazione e mancato controllo, sicuramente quello più rilevante è quello del Giudice Cocilovo, per il quale però la Corte di Strasburgo, 8 anni dopo, ha riconosciuto la tua innocenza e ha obbligato lo Stato a risarcirti, per aver violato il diritto alla libertà d’espressione. Come ti sei sentito in quell’occasione? Qual è il limite, secondo te, che un giornalista non deve mai superare?

Penso che se una persona riesce a non sopravvivere ai figli tutto il resto sono cazzate. Devo però confermarti che l’esperienza di perdere la libertà è comunque un’esperienza traumatica. Il fatto poi di leggere, su una sentenza dello Stato italiano, di essere un delinquente abituale non è stata una bella cosa. Quando lessi quella sentenza, con quella dicitura, ero preoccupato per mio figlio, per il fatto che qualcuno avvicinandolo potesse dirgli: tuo padre è un delinquente abituale. Lui non avrebbe potuto replicare ad una affermazione scritta su una sentenza dello Stato italiano. I limiti di un giornalista sono quelli previsti dalle leggi e dal codice. Penso che un giornalista non debba godere di nessuna immunità, di nessuna corsia preferenziale, debba quindi essere arrestato, anche con una pena severa, se commette un reato grave, conscio di commetterlo. Io fui arrestato per omesso controllo. Posso tranquillamente essere arrestato se scientemente chiedo ad un mio collaboratore di scrivere una notizia che so essere falsa, gli chiedo di denigrare qualcuno. Sto commettendo un reato. Non va confuso però il non diffamare, con l’impedimento di esprimere una propria opinione, anche dura, nei confronti di una persona. Sulle notizie va sempre tenuto presente che un quotidiano scatta una fotografia della realtà in un preciso istante, non è un film. La notizia riporta un fatto che il giorno dopo può cambiare, può essere addirittura l’opposto. Questo non vuol dire aver scritto il falso, in quel momento la notizia era quella. Imputarmi  che poi la storia andò diversamente dal quel momento, accusandomi di colpa, con conseguenze penali, è una cosa pericolosa. Come sai ci vogliono anni per accertare una verità giudiziaria, figurati per una verità giornalistica. La buona fede del giornalista va considerata, se lo stesso modifica il cambiamento nelle sue sequenze, non difendendo a priori il primo scatto di una fotografia, prendendo atto che si trattava di uno scatto sfuocato.

 

Perché non hai mai pensato di scrivere un libro prima de Il Sistema? Ci sarà un seguito?

Prima del “Il Sistema” non ho mai pensato di scrivere nulla perché non avevo nulla da dire, se una persona scrive un libro deve avere qualcosa da dire. Le cose che ho da dire le scrivo quotidianamente sul mio giornale. Quando ho trovato qualcosa da dire, sia pure per interposta persona attraverso un’intervista, nel caso specifico a Palamara, ho superato la mia resistenza. Penso di essere stato l’unico direttore a non aver scritto un libro. Scriverò il prossimo con Palamara o senza Palamara, se ci sarà qualcosa di nuovo da dire. Con lui ci stiamo sentendo, ci stiamo ragionando, se capirò che ci sarà qualcosa di nuovo da dire lo scriveremo.

Cosa prevedi per il futuro del giornalismo? Con tutto questa rincorsa al clickbaiting, con la necessità di moltiplicare i contenuti da pubblicare per l’online, non si sta perdendo un po’ il senso del giornalismo di approfondimento e d’inchiesta?

Ci troviamo nella stessa situazione in cui si trovò l’industria discografica alla fine degli anni ’90, quando fu attaccata e compromessa dall’avvento degli MP3, fino ad allora la musica era controllata dalle case discografiche, gli artisti dovevano passare attraverso le case discografiche, come i giornalisti dovevano passare attraverso i giornali. Con gli MP3 tutto questo salta, la musica non viene più gestita totalmente dalle case discografiche, ma viene gestita prima di tutto dalla pirateria, esattamente come è avvenuto con l’informazione. Nell’editoria è successo questo, è crollato un sistema di monopolio che aveva vantaggi e svantaggi. Sono passati vent’anni e l’industria discografica sull’orlo della morte, ha però resistito, il sistema si è spurgato dai limiti che il regime di monopolio aveva, per poi ritornare all’origine, da qui il ritorno al vinile. L’informazione sta facendo lo stesso percorso, il problema è che noi siamo ancora in mezzo al guado, anche se penso che il futuro della musica, come dell’informazione, sarà digitale, ma un digitale fortemente ancorato a qualcosa di cartaceo, che ne garantisca la qualità e il brand. I giornali non venderanno più milioni di copie, ma le loro piattaforme digitali raggiungeranno milioni di lettori, come già in parte avviene. Solo la carta stampata potrà garantire la qualità , l’autorevolezza e l’origine dell’informazione.

Chi stimi di più fra i giornalisti di oggi?

Dobbiamo metterci d’accordo sul significato della parola stima, se per questo si intende la bravura, posso dire che Marco Travaglio sia un giornalista da stimare, così come Claudio Cerasa direttore de Il Foglio, in televisione, Lilly Gruber e Nicola Porro, sono tutti giornalisti bravi perché ottengono risultati. Ho citato Marco Travaglio, però devo dire  che da quando ha preso un’infatuazione per Giuseppe Conte, ha perso qualche punto, è diventato banale, prevedibile. Molte volte in un suo articolo letto, dalle prime righe si capisce perfettamente dove andrà a finire. In passato invece ci ha sorpreso con le sue intuizioni, con i suoi colpi di scena,  non posso dimenticare poi Vittorio Feltri.

E del Corriere della Sera?

Il problema del Corriere è che il brand è talmente superiore, è talmente forte, da sovrastare la bravura dei giornalisti che ne fanno parte. La domanda è: quei giornalisti sarebbero altrettanto bravi fuori dal Corriere? Avrebbero lo stesso successo? Al Corriere ci sono bravissimi giornalisti, Stella, Polito, Franco, Severgnini, per citarne solo alcuni, che però sono avvantaggiati da una grande vetrina. Ecco penso che Aldo Cazzullo invece potrebbe godere dello stesso successo anche fuori dal Corriere. Gramellini è un altro che leggo, quotidianamente volentieri e che leggerei ovunque andasse.

A quando la prossima uscita in bicicletta insieme?

Sto andando poco, tra il nuovo lavoro e la presentazione del libro ho pochissimo tempo e poi tu non me la racconti, ti conosco, vai troppo forte…

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