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Rileggere Oriana: di giornalismo, politica e partecipazione

8 Novembre 2015

“Sì, in effetti ho un concetto di politica elevato. O, se preferite, molto ingenuo. Che Dio benedica gli ingenui”.

È una questione di mancanze. Mancanza di riferimenti, bisogno di modelli, uomini e donne impavidi o quanto meno impertinenti. Deve essere per questo che Oriana Fallaci mi ha avvinta da piccola, preadolescente. Mi ha chiamata dagli scaffali del salone, della stanza matrimoniale dei miei. Erano e sono i libri di mia madre e li leggevo senza sapere che mi avrebbero influenzato. Felice che sia successo. E sull’onda di questa contentezza, di questa coscienza, ho ripreso a leggerla. Ho iniziato un sabato pomeriggio, immersa già da mesi nella non fiction, nella scrittura nostrana o straniera, che esplicitamente realistica vale quanto un romanzo o un racconto.

Oriana Fallaci è senz’altro la regina della non fiction, genere che mixa realtà e invenzione, adesso alla ribalta anche nel Belpaese. Una volta ho detto che la fama di Joan Didion in America è pari a quella di Oriana Fallaci in Italia. Mi correggo: a rileggere tutto di lei, compresa la sua biografia, Oriana – Una donna, a cura di Cristina De Stefano (bellissima e ve la consiglio) ho inteso che la Fallaci è stata ancora più grande, ancora più celebre, checché ne vogliano i sostenitori dei talenti d’Oltreoceano, spesso incapaci di scorgere i nostri. D’altronde, mentre il Washington Post chiedeva ad Oriana di firmare un contratto in esclusiva per l’America, l’Italia la considerava una tipa difficile, fuori di testa. Soprattutto, e questo la faceva soffrire tanto, ai piani alti certuni non ne riconoscevano l’autorevolezza. Era così terribile che il giornalista più famoso al mondo (credo lo sia tutt’oggi) fosse una donna italiana?

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Rileggiamo Oriana Fallaci. Facciamolo perché ha scandagliato i massimi sistemi, ha proclamato dalle pagine per cui scriveva, nelle scuole, nelle università, nei campus, dove gli studenti l’attendevano come un profeta, che ogni cittadino per dirsi tale deve partecipare alla vita politica, in caso contrario è pari ad un vegetale. La posta in gioco è la libertà, che prima di essere un diritto è un dovere.

“La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere” diceva sempre.

Era ossessionata dalla libertà, dalla perdita della memoria da parte delle nuove generazioni. Temeva che l’orrore della dittatura, che aveva vissuto sulla sua pelle, potesse ritornare. Non ammetteva distrazioni, pretendeva coscienza. Per questo scriveva e parlava facile: la sua popolarità era una missione. Al Columbia College di Chicago, dove era stata già insignita della laurea honoris causa in letteratura, lesse poesie contro l’oppressione, la tirannia, la dittatura. “Poesie che raccontano di pena e dolore, protesta e disubbidienza, coraggio e rabbia, speranza in un mondo migliore. Poesie politiche”. Pensava che nessuno più dei giovani avesse bisogno di sapere. Quello che raccontava a quei ragazzi lontani anni luce per status e condizione dagli autori di quelle liriche, era ciò che alimentava il suo lavoro già da trent’anni. Credeva nella funzione sociale del giornalismo, della parola scritta, nella possibilità di dissentire.

“Il nostro compito è informare e risvegliare la consapevolezza politica delle persone. Quella consapevolezza che il potere ha sempre cercato di mettere a dormire”. O ancora: “Il giornalismo deve esistere per aiutare le persone a trovare o mantenere la propria dignità, per combattere la propria ignoranza, per se stessi. Il giornalismo non è solo fatti, bensì l’interpretazione dei fatti attraverso le idee”.

Non credeva nella favola che il giornalismo si basa sui fatti e non sulle opinioni. Diceva a gran voce che è un imbroglio e che ogni avvenimento passa attraverso lo sguardo di una persona che lo ripropone secondo il suo sentire, come capita a un pittore davanti a un paesaggio o a un modello. L’unico patto da non trasgredire è dire la verità, non inventare. Ciò premesso, il giornalista deve essere libero di esprimere un parere, di commentare. Lei faceva questo, invitandoci a stare all’erta, a stare nei processi, a non spegnare il cervello. Per Oriana il giornalismo, la scrittura erano espressione del suo fare politica: “Sono politica anche quando scelgo alcune parole piuttosto che altre (…)”.

Le conferenze che teneva in giro per il mondo furono l’occasione anche per rimarcare il legame tra politica e giornalismo, perché il giornalismo nacque politico. I primi giornali con un che di moderno apparvero in Europa, nel Cinquecento, per opera dei menanti, coloro che scrivevano a mano su una sorta di settimanale notizie su feudatari, principi, leggi e poi lo distribuivano alla gente. Ovviamente, venivano perseguitati e trucidati per questo. Instillavano consapevolezza nel popolo e andavano tenuti a bada. Con loro fu spietata anche la Chiesa. Eppure, questo ostruzionismo non arrestò la crescita del giornalismo come miccia di conoscenza popolare. Le grandi rivoluzioni della storia (tra tutte la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano) sono germogliate tra le colonne di un giornale. Lei difendeva questo giornalismo: il giornalismo per informare e non distrarre la gente. Il giornalismo per osare, perché “se è vero che la verità sta nel mezzo, è altrettanto vero che certe volte sta tutta da una parte”.

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Oriana ha girato il mondo, ha intervistato tutti i potenti della Terra, ha raccontato le guerre del suo tempo e non ha mai cambiato idea. L’idea che il valore di una persona si misuri col coraggio. L’idea che la sfida più pesante per un essere umano sia restare fedele ai propri ideali. È difficile perché a restare coerenti (che non vuole dire non cambiare idea, ma non svendersi, non tradirsi) si paga quasi sempre un prezzo alto.

Se vi interessa, potete ritrovare questi concetti soprattutto ne Il mio cuore è più stanco della mia voce, La Rabbia e l’Orgoglio, Un uomo, Oriana Fallaci intervista sé stessa – L’Apocalisse.

Contro il lavaggio del cervello della pubblicità, contro il conformismo e la dialettica scialba e utilitaristica della nostra classe politica, rileggere Oriana è come riprendere aria. Tornare a respirare, anche se fa un gran male.

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