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Riflessioni sull’intervista di Rivista Studio a De Bortoli
Federico Sarica intervista Ferruccio De Bortoli. Quale futuro aspettarsi per Il Corriere e per l’editoria tutta? Per il Direttore è fondamentale recuperare il rapporto coi lettori. Per noi non basta
De Bortoli è il direttore del più importante quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, è dimissionario da mesi e ad aprile conoscerà il nome del suo successore. Forse – perché quando c’è di mezzo il potere non si sa mai.
Poco dopo l’annuncio delle sue dimissioni, De Bortoli, per mezzo di un editoriale, ha lanciato sul Corriere una serie di moniti contro il Patto del Nazareno (puzza di massoneria, scrisse). I commentatori dissero che era solo il primo di una serie di editoriali che certamente sarebbero venuti e che avrebbero fatto discutere.
In una intervista pubblicata sull’ultimo numero di Rivista Studio, Federico Sarica domanda a De Bortoli: come si fa a convincere le nuove generazioni che Il Corriere della Sera sarà sempre Il Corriere della Sera? De Bortoli risponde: «Dobbiamo riuscire a farli innamorare in qualche modo dello spirito critico che il giornale per sua natura promuove». Con tutto il rispetto per il Direttore, ci permettiamo di suggerire una riposta alternativa: bisogna fare come il New York Times (o come numerosi altri esempi dalle risorse anche ben più limitate), E, quindi, bisogna sfruttare al meglio un sito nativo, innovativo, pieno di contenuti e non soltanto di articoli brevi, di richiami al giornale o alle altre riviste del gruppo. Bisogna investire in giornalisti, videomaker, infografici, in tutte quelle professionalità che nelle redazioni dei siti dei quotidiani non sono ancora entrate e che, a quanto mi risulta, non ci sono nemmeno al Corriere.
De Bortoli continua: «Se dovessimo essere guidati dai clic ci occuperemmo solo di cose sciocche, irrilevanti e molte volte false». E qui il terreno è scivoloso: la home del Corriere è da sempre presa a riferimento negativo, come panacea in cui vengono collocate notizie acchiappaclic. Vero, non vero? Controllo: nel momento in cui scrivo, per esempio, c’è tutta una spataffiata di notizie leggerine su Sanremo che, certo non sono il massimo dell’intelligenza, ma manco i gattini e le donnine. Però l’autorevolezza e la credibilità online sono un’altra cosa, eh.
Poi De Bortoli parla del futuro, dicendo: «La grande sfida per noi resta il passaggio dalle news gratuite online, ai contenuti a pagamento». Perfetto, i contenuti però vanno prodotti, e prodotti in modo nativo (storytelling, snowfall, documentari, video alla Vox o alla Buzzfeed con Obama), a meno che De Bortoli non intenda il sito semplicemente come un raccoglitore di pezzi prodotti per il giornale cartaceo e messi su web. Se è così azzardo un appello: non fatelo, non è solo una questione di autorevolezza riconosciuta o no ma anche di mezzo. Le giovani generazioni non comprano i quotidiani non perché non li ritengano credibili ma perché manco li vedono. Non c’entra più soltanto la qualità del giornale, c’entrano i telefonini, i tablet, il linguaggio, la presenza sui social, la capacità di tenersi i lettori attaccati attraverso strategie e algoritmi. È un’altra cosa, la qualità da sola non è più sufficiente.
Nella seconda parte dell’intervista De Bortoli è più duro. Si scaglia contro i finti editori che si sono impossessati dei giornali, parla di rapporto «obliquo se non osceno» tra potere politico e capitalismo privato (guardate che per il direttore del Corsera non sono frasi scontate). Insomma, torna a bacchettare e in conclusione dice: «Spero che sempre più giornalisti possano diventare editori di sé stessi». Dopo essersela presa con i grandi gruppi che vagheggiano di branded content invece che investire nel rapporto coi lettori, di certo un augurio su cui riflettere. Chi pagherà questi giornalisti? Quale modello di business potrà tenere insieme tutto ciò? Continuiamo a pensarci.
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