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Renzi al UsOpen non ha toccato palla
18 ore di volo per nulla. Il mal di testa da jet lag il nostro premier stavolta se lo è andato a cercare. Due italiane in una finale di uno Slam sono di certo un evento storico, meritevole di attenzione e di più di un pizzico di orgoglio nazionale. Una gioia in primis per gli appassionati perché il tennis non è il calcio e lo Us Open non sono i Mondiali. Che Matteo Renzi invece abbia mollato baracca e burattini per precipitarsi a New York davvero con questa bella pagina dello sport c’entra poco. In passato non si sono mai visti (vado a memoria) politici durante questo tipo di finali. Nessun premier tedesco si è mai scomodato per la Graf, ad esempio, ma nemmeno nessun ministro russo quando capitò nei primi anni 2000 (vado a memoria) che due atlete ex sovietiche si contendessero un torneo di importanza comparabile a questo. Non penso che Obama avesse in agenda di fare capolino all’Arthur Ashe Stadium se Serena avesse coronato il sogno del Grand Slam. A Wimbledon passano a volte principi e principesse in rigoroso stile dimesso, “casual” e non ufficiale.
Il motivo è abbastanza semplice: Flavia Pennetta e Roberta Vinci ( ma tutte le protagoniste e i protagonisti di questo nobile sport) sono due professioniste che quando giocano non rappresentano il loro paese, ma loro stesse. Diversamente accade quando perdono letteralmente i loro nomi e cognomi e diventano “Italia”in Federation Cup. Ogni accostamento a Pertini nell’82 è pertanto assurda. Pertini non si sarebbe mai scomodato per una finale di un torneo, diciamo così, individuale e privato anche se in campo ci fossero stati due connazionali. Pertini agitava braccia e pipa per l’Italia che scalava le vette del mondo portandosi dietro in questa celeste ascesa una intera nazione.
La presenza del Premier è risultata pertanto ornamentale. Incongrua. Solo, tra Michael Douglas, Catherine Zeta Jones e Robert Redford, Matteo ci ha fatto fare la figura dei provincialotti di campagna, che messo il vestito buono si presentano ad una festa per cui non hanno l’invito e mestamente si ritrovano in un angolo a sgranocchiare salatini parlando solamente fra loro e senza interazione col contesto.
Nemmeno l’operazione di self marketing stavolta gli è riuscita granché. In giacca e cravatta fra gente in ciabatte, fra puzza di hot dog, aerei in partenza e in arrivo, musica a palla, cameraman che giustamente preferivano a lui vip dello spettacolo, fidanzati e allenatori, ad un certo punto ha provato a sdrammatizzare con un accenno di balletto sulle note di chissà quale pezzaccio pop a stelle strisce. Al confronto Fognini sorpreso a farsi un selfie due secondi dopo la vittoria e contestuale addio al tennis della “sua” Flavia è sembrato quasi simpatico. La grande delusione è diventata depressione quando le due campionesse italiane intervistate dalla speaker, al momento della premiazione, si sono ben guardate dal nominarlo esplicitamente e ringraziarlo ( in mondovisione) per aver attraversato l’oceano solo per loro. Quello era il loro momento in quanto “Flavia” e “Roberta”, il fatto della nazionalità c’entrava poco come è giusto in una dimensione sportiva a-nazionale. E fortunatamente di campionesse poracce, alla Vezzali per intendersi, non ne abbiamo molte.
Che molti stasera le abbiano guardate giocare di certo avrà fatto loro piacere, ma il tennis è uno sport di personalità, di solitudini, di sfide a se stessi. Di nomi e cognomi, prima che di provenienze e latitudini. Roger Federer è il re del tennis. Il suo regno non porta tratti della Svizzera natia. Martina Navratilova e Monica Seles, rispettivamente cecoslovacca e serba di nascita, poi entrambe americane d’adozione, sono sempre state identificate con nome e cognome, che automaticamente conduce a tornei vinti, colpi vincenti, bei momenti di sport senza geografia.
La dimensione del “noi” fatica ad entrare in questa disciplina. E fortunatamente anche la politica ha vita dura.
Renzi non poteva aggiungere o togliere nulla alla loro vittoria, alla loro storia individuale sportiva.
Le due campionesse potevano però puntellare consapevolmente o inconsapevolmente la sua retorica del vincente che compare sempre dove l’inno alla gioia va in filodiffusione. Non l’hanno fatto. Non credo per scelta, semplicemente perché quella dimensione del vincere non appartiene loro. I tennisti non hanno tifosi. Hanno ammiratori. Se lo avete notato i ringraziamenti ai fans dopo una vittoria arrivano sempre dopo quelli al coach e al fisioterapista e a volte non arrivano nemmeno. Non sono abituati a condividere successi e debacle. Sono gelosissimi di entrambi.
Scontato il successivo profluvio di scatti su Instagram dello zelante spin doctor Filippo Sensi, scatti dal sapore riparatorio e amaro cui giustamente Flavia e Roberta non si sono sottratte. Scatti quasi tutti a colori e la scelta in controtendenza all’abituale bianco e nero seppiato della distanza, testimonia la necessità appunto di colorare scene cariche di dissolvenza e indifferenza.
Con un Moment e un po’ di melatonina questo strapazzo transoceanico sarà presto archiviato e il nostro dinamico presidente del consiglio tornerà più ruggente che mai ad occuparsi di riforma del senato, riottose minoranze, complicate alleanze. Ma se doveva essere l’ennesima scaltra scelta di trovarsi al posto giusto al momento giusto per fagocitare in tutto in parte un successo italico che non lo riguardava e non lo riguarda, l’operazione è fallita. l’11 settembre 2015 resterà la giornata di Roberta Vinci ma soprattutto di Flavia Pennetta che ha vinto per se stessa e per chi le vuole bene. E quella vittoria milionaria non l’ha prestata nemmeno un minuto per usi e abusi impropri. Ne ha fatto anzi il trampolino di lancio per la sua nuova vita, annunciando il ritiro dai campi. Se proprio Renzi vuole portarsi a casa qualcosa da questa trasferta può pigiare nel trolley questa bella lezione di stile. E di vita.
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