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Quelli che volano sul nido del cuculo e di cui non si parla
Una delle regole del giornalismo è ricordarsi di qualche evento al momento del compimento di un anniversario “tondo”: si torna a parlare di qualcosa che è accaduto 10, 25, 50 anni prima. O anche 40, come è accaduto l’altro ieri per l’anniversario del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, la pellicola che consacrò come attore un ancora giovane Jack Nicholson.
Un’altra regola, molto semplice, la spiegava ai nuovi collaboratori dei settimanali che dirigeva Pino Aprile (che oggi ha lasciato l’attività giornalistica per dedicarsi ai libri sul Mezzogiorno). “Prima di proporre un articolo”, diceva Pino, “chiediti sempre se risponde alla domanda “Perché farlo adesso?”.
Ripassare il film di Milos Forman soltanto come occasione per ripercorrere una pietra miliare della storia del cinema, come hanno fatto quasi tutti i giornali, è stata, pertanto, una occasione persa. Sarebbe stato, infatti, opportuno, cogliere l’occasione fornita dall’anniversario (“perché farlo adesso”) per parlare di un argomento del quale si parla poco e sul quale gli italiani sono poco informati. Quanti sono i disagiati psichici in Italia? Come e da chi sono assistite dopo la chiusura dei manicomi voluta dalla legge Basaglia le persone che soffrono di disturbi psichiatrici?
Le politiche relative alla gestione degli “psichiatrici” in Italia sono sempre state molto più avanti di quanto la società fosse pronta a recepirle, a gestirne gli effetti che avrebbero prodotto.
Si pensi, per esempio, al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Una recente legge le ha sostituite con le cosiddette Rems, ma alcune Regioni non sono ancora pronte con le strutture che dovrebbero ospitare gli ex internati di quelli che una volta si chiamavano “manicomi criminali”. Tanto che in uno di essi, l’Opg di Reggio Emilia, come denunciato qualche settimana fa dal cappellano della struttura con una lettera aperta ai giornali, sono ancora rinchiusi una trentina di pazienti che non vengono smistati, avendo la Regione Emilia Romagna previsto solo due Rems e la Regione Veneto ancora nessuna
Quello dell’ospedale psichiatrico giudiziario, si potrebbe obiettare, è un caso limite. In Italia, però, sono 1 milione i pazienti psichiatrici gravi (500 mila sono schizofrenici) con un 20% che è ed è destinato a diventare cronico, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Nel 2020, sempre secondo l’Oms, nel mondo la depressione sarà la seconda causa, dopo le malattie cardiovascolari, di anni di vita persi per disabilità.
Il passaggio da varie forme lievi di depressione o ansia alle patologie psichiatriche gravi, dicono gli esperti, può essere molto breve. Ogni anno, nel mondo ogni 100mila abitanti ci sono 15,2 nuovi casi di schizofrenia (con un rapporto 1,4 maschi/femmine e 4,6 immigrati/locali), con un valore medio dell’insorgenza di 22-23 anni.
Come riporta un dossier di Redattore sociale dell’ottobre scorso:
La legge 180 ha demandato tutta l’attuazione alle Regioni. Al momento della sua approvazione nel 55% delle province italiane esisteva un ospedale psichiatrico pubblico, il 18% si avvaleva di istituzioni private ed il 27% inviava i propri cittadini in manicomi di altre province. Alcune Regioni hanno emanato in modo tempestivo le normative regionali, ma altre hanno ritardato. Di fatto ogni Regione ha legiferato da sé, producendo realtà alquanto diversificate nelle tipologie delle strutture e dei servizi, che tuttora fanno registrare in Italia una situazione a macchia di leopardo non solo per la quantità dei servizi erogati, ma soprattutto per la qualità dell’assistenza, che spesso ripropone, con altro nome, la stessa logica manicomiale. Solo nel 1994, dopo 16 anni, è arrivato il Progetto Obiettivo, che delineava quali fossero le strutture da attivare a livello nazionale e dava l’avvio ad una riorganizzazione sistematica dei servizi preposti all’assistenza psichiatrica.
Uno dei nodi cruciali della discussione, oggi, è la condizione di quei malati cosiddetti non collaborativi che, non riconoscendo la loro malattia, sono recalcitranti alla cura e quindi secondo la legge attuale non possono essere avviati al trattamento di cui avrebbero bisogno. Situazione questa che spinge a più di 20 anni dall’entrata in vigore della 180 alcune associazioni ma anche alcuni parlamentari, come ad esempio la deputata di Forza Italia Maria Burani Procaccini, a chiedere una ridefinizione della normativa vigente e in particolare di tutta l’area del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) verso forme di cura obbligatorie, non nella veste manicomiale tradizionale, ma attraverso un modello che può finire per somigliargli molto.
Di fatto una delle critiche più forti che ha raccolto negli anni la 180 è proprio quella di non aver predisposto adeguatamente il “dopo chiusura”. Trasferendo le competenze della cura nella cosiddetta “psichiatria territoriale”, senza che però le regioni fossero pronte, il problema dell’assistenza socio-sanitaria è passata di fatto dallo Stato direttamente ai familiari, lasciando il carico di concretamente il proprio congiunto malato.
Di fatto, quanti conoscono la distinzione tra un reparto di Diagnosi e cura, un Dipartimento di salute mentale e un Centro di salute mentale, se si escludono coloro che ne sono venuti a conoscenza per il disagio vissuto da un familiare?
Ecco, allora: d’accordo che ormai la gara è a cercare e pubblicare le notizie che notizie non sono. In alcuni, casi, però, converrebbe ricordarsi che alcune regole del giornalismo andrebbero sempre tenute a mente. Si sarebbe potuto fare anche approfittando del 40esimo anniversario di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Ma forse chi scrive è rimasto ancorato a una vecchia idea di questo mestiere.
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