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Perché gli Agnelli vogliono comprarsi The Economist

5 Agosto 2015

È notizia di alcuni giorni fa la vendita del Financial Times da parte dalla casa editrice inglese Pearson ai giapponesi di Nikkei. L’acquisizione della testata, costata 884 milioni di sterline (1,2 miliardi di euro), non prevedeva la quota di maggioranza di The Economist posseduto dalla Pearson.

Il piano economico della casa editrice è quello di dismettere progressivamente le partecipazioni estranee ai settori principali dell’editoria scolastica e scientifica.

Si inserisce in questo contesto la cessione del 50% del pacchetto azionario di The Economist ad oggi posseduto per metà dalla Pearson e per metà da altri investitori tra cui figurano gli Agnelli con una quota del 4,72% controllata da Exor.

Perché per la famiglia torinese essere azionisti di The Economist è così importante?

Il settimanale inglese ha una caratteristica che possono vantare poche altre testate al mondo: riesce a unire una diffusione altissima a un ruolo di opinion maker per i principali economisti mondiali.

L’acquisizione del pacchetto del settimanale portata avanti da John Elkann – che già siede nel consiglio di amministrazione – permetterebbe di sviluppare il progetto di internazionalizzazione iniziato con la creazione di FCA.

In quest’ottica gli Agnelli – che già sono proprietari de La Stampa e hanno ampie quote inRcs editore del Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport – potrebbero allargare la propria influenza anche nel mercato mondiale.

Anche perchè i numeri di The Economist sono notevoli. Secondo i dati diffusi da The press gazzette – la rivista inglese edita dal 1965 e specializzata nel mondo del giornalismo – ogni settimana The Economist è letto da 5.3 milioni di persone di cui più di 4.5 milioni per l’edizione cartacea. L’audience negli Stati Uniti è pari a 3.389.433 milioni, in Inghilterra i lettori sono 501.343 e in Europa 648.959, senza contare i paesi asiatici in cui i lettori superano il mezzo milione. La circolazione del settimanale invece, tra l’edizione cartacea e quella digitale, supera il milione e mezzo di copie.

Numeri che susciterebbero l’interesse di qualsiasi editore tanto che i principali colossi dell’editoria mondiale si sono fatti avanti per l’acquisto delle quote di The Economist: da Axel Springer a Bloomberg a Reuters-Thompson.

L’interesse suscitato dalla vendita del Financial Times e l’importo investito per l’acquisto di una testata che, seppur fortemente sviluppata sul digitale, continua ad avere nell’edizione cartacea la sua principale attività, sono sintomatici del valore che i giornali cartacei continuano ad avere nella società contemporanea.

È un piacere poter contraddire la dichiarazione dell’editore del New York Times Arthur Sulzberger rilasciata nel 2007 al quotidiano isrraeliano Haaretz: “Non so davvero se stamperemo ancora il Times tra cinque anni, e, se vuole proprio saperlo, non me ne importa nulla. Internet è un posto meraviglioso e noi lì siamo leader”, una frase fortunatamente errata ripresa nel libro “L’ultima copia del New York Times” di Vittorio Sabadin edito nel 2007 da Donzelli.

Nel mercato editoriale anglofono – che solitamente anticipa di qualche anno le tendenze di quello italiano – dopo gli anni terribili della crisi che hanno portato a un calo vertiginoso nelle vendite e nella pubblicità, qualcosa sembra muoversi e i principali giornali cartacei americani e inglesi, anche grazie all’integrazione tra carta e digitale, sembrano aver trovato un nuovo modello di business per il futuro.

@francescogiub

FONTE: CULTORA

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