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Ostellino e quei liberali alle vongole

10 Ottobre 2015

Piero Ostellino compie 80 anni. Da qualche mese ha abbandonato il Corriere della Sera ed è passato a scrivere per Il Giornale della famiglia Berlusconi.

Una scelta che ha fatto scalpore non tanto per la destinazione (in realtà più consona per lui rispetto al Corriere) quanto per la motivazione sottostante: lasciava il Corriere – di cui era stato collaboratore per 48 anni e direttore per 3 – a causa della decisione dei vertici di ridurre gli stipendi a tutti gli editorialisti del quotidiano milanese (nel suo caso si passava dall’esorbitante cifra di 270.000 euro netti annui a una più modica di 150.000).

Ma, più dell’oggi, è interessante tratteggiare la storia e un ritratto del personaggio.

Ostellino esordì al Corriere della Sera, sotto la direzione di Piero Ottone, come corrispondente da Mosca (e successivamente a Pechino); per il veto della componente comunista del giornale alla scelta dell’editore (che puntava su Alberto Ronchey), ne divenne direttore, imposto dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi.

In quei pochi anni da direttore reclutò giornalisti e collaboratori poi divenuti celebri (come Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri, Giulio Tremonti, Roberto D’Agostino) ed emarginò quelli sospettati di simpatie comuniste (Antonio Padellaro e Gian Antonio Stella solo per fare due nomi).

Paolo Murialdi, storico del giornalismo, ha definito gli anni di direzione di Ostellino (1984 – 1987) una fase di “immobilismo editoriale”, tanto che fu proprio sotto la sua stagione che, nel dicembre del 1986, dopo quasi 10 anni, avvenne lo storico sorpasso de La Repubblica di Scalfari ai danni del Corriere.

Nel gennaio del 1987 La Repubblica, principalmente grazie al gioco a premi Portfolio, guadagnò in un colpo solo 180.000 copie di vantaggio sul rivale e il corriere della Sera decise pertanto di correre ai ripari rimuovendo Ostellino e insediando Ugo Stille come nuovo direttore.

Da fervente anti-comunista e craxiano diviene berlusconiano durante la seconda repubblica.

Negli ultimi 20 anni al Corriere della Sera, ha rappresentato infatti una delle colonne portanti del berlusconismo.

Lui rifiuta tale appellativo. Di fatto però ha sempre profuso il suo impegno di intellettuale militante alla costante e pervicace difesa di Berlusconi e del suo partito, in un modo fintamente terzista: evitando cioè se possibile di elogiarlo direttamente (al contrario di un Giuliano Ferrara che è sempre stato nei confronti del berlusconismo smaccatamente encomiastico), ma piuttosto scagliandosi contro chiunque cercasse di contrastarlo (dalla magistratura alla sinistra, passando per Fini). Tutto questo nel deliberato intento di favorire il Cavaliere.

Tra i tanti episodi: anni fa, al culmine delle vicende giudiziarie che hanno coinvolto Berlusconi e lo hanno poi estromesso dalla vita politica, invocò su Il Foglio la necessità di una non meglio precisata “pacificazione” fra antiberlusconiani e berlusconiani.

Oppure, quando nel 2001 l’Economist, allora diretto da Bill Emmott, si schierò apertamente contro Berlusconi descrivendolo come “unfit to lead italy”, Ostellino paragonò il settimanale inglese a “una zitella vittoriana”, sostenendo che il settimanale si esprimesse così perché accecato dal rancore per Berlusconi.

E ancora, durante il processo Ruby arrivò ad asserire che le ragazze che partecipavano alle serate con Berlusconi “sedevano sulla propria fortuna”, e che non c’era niente di male a far uso del proprio corpo ricavandone vantaggi “perché così da sempre va il mondo” (il tema è stato poi ripreso da una giornalista di Panorama, Il Foglio e Il Giornale – Annalisa Chirico – che ne ha tratto un libro dal titolo “siamo tutti puttane”).

Nel succitato articolo, che De Bortoli cercò di occultare confinandolo nelle pagine dei commenti senza richiamo in prima, usò testuali parole: “una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia, diciamo così, partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta. Il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l’indulgenza all’esame o al capo ufficio per fare carriera”.

Una tesi aberrante, che gli provocò un profluvio di proteste da parte di un gran numero di lettori scandalizzati e una lettera di una cinquantina di giornalisti del Corriere che si dissociavano dai contenuti dall’articolo.

Recentemente, tuttavia, ha anche ammesso il completo fallimento di quell’esperienza politica (incolpandone ovviamente gli ex alleati di coalizione), ma ciò significa poco.

Ora che si è esaurita la parabola politica di Berlusconi persino i berlusconiani più accaniti, in un estremo atto di resipiscenza, riconoscono che della tanto decantata rivoluzione liberale negli anni di governo di Berlusconi non si è vista traccia; e anche altri “esponenti del terzismo” del Corriere come Galli Della Loggia, Pierlugi Battista, Panebianco sono pervenuti, seppur anche loro con 20 anni di ritardo, alla medesima conclusione.

I suoi articoli sul Corriere si sono succeduti sempre uguali, intrisi di ideologia, densi di riferimenti e citazioni dotte dei classici del pensiero liberale, sdottoreggiando forse per convincere se stesso e gli altri di essere un autentico liberale oppure al solo fine di mostrarsi colto.

La sua rubrica si chiamava “il dubbio”. Buona pratica che lui per primo non mostrava di voler coltivare. Nei suoi editoriali faceva uso (e ancora seguita così) di un tono apodittico, sentenzioso, sprezzante (qualche tempo fa, indispettito dalle continue critiche dei lettori del giornale, li mandò letteralmente al diavolo).

Negli anni in cui scriveva per il Corriere, Ostellino ha fatto sfoggio di un garantismo peloso, tipicamente italiano: innocentisti a prescindere con gli amici, colpevolisti o giustizialisti coi nemici e gli avversari.

Ad ogni inchiesta o processo che vedeva coinvolti i vari Berlusconi, Moggi, Ricucci, Fazio, Riva, Ligresti, Ostellino era aduso tentare di scagionarli da qualsiasi accusa, a inveire contro i giornali e la magistratura; quest’ultima definita nel suo complesso “gente che non sa fare il proprio mestiere o lo fa con la (paranoide) presunzione di poter disporre della vita degli altri a proprio arbitrio”, “animata di un senso politico-palingenetico della funzione o di un’idea di se stessa che rasenta la paranoia” (mancava solo l’accusa alla categoria di essere mafiosi o affetti da turbe psichiche, ma d’altronde c’aveva già pensato il suo beniamino).

Per anni, impancandosi a unico vero rappresentante del liberalismo in Italia, ha propinato dalle colonne del giornale la solita ossessiva litania sul comunismo e la sua ideologia imperante, ammonendo che la sinistra italiana e la sua cultura politica sono state e rappresentano tuttora una iattura per il paese. Mai si è letta invece, da parte sua, una parola di sdegno, o di critica altrettanto dura, nei confronti di chi avrebbe dovuto rappresentare un’opzione politica autenticamente liberale e che invece di quei principi ha fatto scempio (la destra berlusconiana tanto per essere chiari).

Naturalmente non si vuol qui negare che il comunismo sia stato un regime politico totalitario che dovrebbe ripugnare chiunque tanto quanto analoghe esperienze storiche come il fascismo o il nazionalsocialismo, oppure che la sinistra italiana, col suo complesso di superiorità morale, la tendenza al conformismo e ad impartire un proprio “pensiero unico” da cui non ci si può discostare, non meritasse di essere duramente sferzata, tutt’altro; ma le intemerate di Ostellino derivano da una visione alquanto grossolana e ideologica della realtà (e probabilmente ciò è anche il portato della sua esperienza di cronista a contatto con le efferatezze del regime sovietico durante gli anni della guerra fredda).

Un integralismo feroce che lo porta, ad esempio, ad attribuire allo stato sovranazionale europeo gli stessi caratteri dell’Unione Sovietica, a definire Renzi “novello duce”, a stigmatizzare le sue riforme istituzionali come il prodromo di una dittatura (in questo le sue critiche sono indistinguibili da quelle della sinistra (post) comunista che lui tanto avversa) o, come altri ignoranti del dettame costituzionale, a lamentarne la mancanza di legittimità come presidente del consiglio in quanto non eletto dal popolo (d’altronde quando Monti diventò premier evocò il “colpo di stato” per le modalità della nomina).

E’ stato tra i primi, inoltre – non senza buone ragioni -, a lanciare i suoi strali contro Bergoglio, “papa terzomondista e pauperista”

Insomma, l’equilibrio e la sobrietà di giudizio non sembrano proprio appartenere al nostro pensatore (sedicente) liberale, che pare intingere la sua penna nel proprio estremo furore ideologico.

Ostellino appartiene a una schiera di liberali, maggioritaria in questa cultura politica ormai residuale, che interpretano il liberalismo in maniera stravagante e anarcoide, una concezione che considera un attentato alle libertà degli individui la mera presenza di regole e divieti e la presenza dello stato come un odioso intralcio volto a conculcare la libertà e i diritti dei cittadini.

Nel 2009 scrisse un libro intitolato proprio “Lo stato canaglia” (non era ancora in auge l’espressione “stato ladro” coniata da Giannino?) in cui stigmatizzava regole e sanzione stabilite dal legislatore (le più banali come l’autovelox o le multe per divieto di sosta o ai clienti delle prostitute) perché giudicate autoritarie e liberticide e si lanciava in una difesa sperticata dei diritti acquisiti (a proposito dell’intangibilità delle pensioni retributive).

Per dare un’idea, ecco un passaggio del libro: “il limite di velocità è diventato una forma di lotta di classe, le auto di grossa cilindrata sono il Palazzo di Inverno da assaltare e l’autovelox l’incrociatore Aurora che dà il via alla rivoluzione egualitaria”.

Ha scritto saggiamente Gianfranco Pasquino, allievo di Norberto Bobbio e di Giovanni Sartori, che non basta essere antisocialisti per definirsi liberali. E Ostellino più che un liberale sembra un reazionario.

Non bisogna stupirsi dunque se in Italia, dove troppi a parole si professano liberali senza esserlo veramente, questa cultura politica è così poco diffusa e impopolare.

Il merito, se così si può dire, è dovuto anche al fatto che a rappresentarlo sono personaggi come Ostellino e simili. Pannunzio li chiamava “liberali alle vongole”.

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