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Onore, nazione e «ingiurie della rivoluzione» nella Repubblica di Verdelli

18 Aprile 2019

Mentre la cattedrale di Notre-Dame ancora bruciava, Francesco Merlo ha scritto per Repubblica un breve pezzo piuttosto interessante soprattutto per il linguaggio con il quale è stato costruito. «[…] Nell’Europa che diventa sovranista – ha scritto Merlo – con Notre-Dame sta bruciando l’idea di nazione. Quel tetto in fiamme è infatti il tetto che ci copriva tutti, non una rovina che va in rovina come Palmira o i Budda dell’Afghanistan e neppure come la Fenice, che fu incendiata da due elettricisti criminali ma era solo un teatro, sia pure prezioso». Quindi, l’apoteosi: «È il monumento, il santuario, la matrice della civiltà europea, la Chiesa dei re cattolici che unificarono la terra dei franchi e fondarono appunto la prima nazione. Ed è più forte della Marsigliese perché è sopravvissuta alle ingiurie della rivoluzione».

Al di là dei contenuti espressi in modo esplicito nel testo e dei quali si potrebbe comunque discutere a lungo – le «ingiurie della rivoluzione»? Davvero? Ma Repubblica è diventato il quotidiano della Vandea? E davvero una chiesa più d’ogni altra cosa è da considerarsi elemento fondante della nostra cultura o, per dirla con Merlo, «la matrice della civiltà europea», e non anche un teatro; un teatro come La Fenice peraltro [«era solo un teatro», scrive Merlo] – ebbene, al di là dei contenuti, si diceva, sono le parole scelte a colpire, e soprattutto i toni i quali raccontano spesso più delle parole. E i toni somigliano pericolosamente a quelli utilizzati nel campo dei sovranisti e della retorica populista da cui Repubblica afferma orgogliosamente d’esser culturalmente e politicamente lontana.

Eppure, qualcosa almeno di quella retorica sembra aver fatto breccia. E non si tratta soltanto del pezzo di Merlo. Dagospia, per dire, ultimamente ha dedicato più di un articolo a un’altra firma di Repubblica, Federico Rampini. «Anvedi Rampini, sempre più sovranista! – Il giornalista di Repubblica fa rabbrividire Lerner da Gramellini», è uno dei titoli apparsi sulla testata di Roberto D’Agostino, e in effetti il recente intervento di Rampini nella trasmissione condotta da Massimo Gramellini su Raitre è stato piuttosto interessante da questo punto di vista.

Infine, qualche giorno fa sulla prima pagina di Repubblica è apparso un articolo dell’ex direttore Ezio Mauro a proposito del caso Cucchi il cui titolo galleggiava nel bianco della prima pagina come fosse scolpito nel marmo: «L’onore di una nazione». Poi, nella chiusa si poteva leggere: «[…] nel corretto uso quotidiano della regola democratica risiede il senso moderno dello Stato, e l’onore di una nazione». Ed è evidente che si tratta di un registro inusuale per un quotidiano il quale ha sempre preferito altre categorie retoriche: in altri tempi si sarebbe probabilmente scritto di ferita alla democrazia invece che di onore della nazione.

Questo slittamento verso toni che non appartengono alla tradizione di quel quotidiano, e neppure all’area culturale alla quale quel quotidiano si rivolge, colpisce molto. E colpisce anche perché altrove, nel frattempo, non ci si limita soltanto ai toni ma si aggiungono nuovi – e a volte vecchi – argomenti. Qualche giorno fa, per dire, sul Corriere della Sera Aldo Cazzullo è intervenuto sul tema della relazione tra via Rasella e le Fosse Ardeatine, rispondendo alla domanda d’un lettore il quale chiedeva se la rappresaglia nazista si sarebbe potuta evitare qualora i partigiani si fossero consegnati ai tedeschi. Ebbene, come ci insegnano la storia, gli storici e persino la cronaca d’allora, ciò sarebbe stato impossibile anche volendolo poiché la notizia della rappresaglia nazista fu data soltanto a cose fatte. E questa sarebbe stata la risposta da dare al lettore. La risposta di Cazzullo è stata invece di questo tenore: «Sulla sostanza, signor Carlo, posso essere d’accordo con lei»; «la bomba di via Rasella probabilmente era meglio non metterla»; «la rappresaglia non solo era messa nel conto; era uno dei propositi dell’azione».

Ma d’altra parte capita che di tanto in tanto una nuova idea, un nuovo tema, o anche un nuovo sistema culturale si affermino sulla scena cambiandone l’orizzonte e costringendo tutti a farci i conti, finendo per modificare persino il linguaggio utilizzato per raccontare le cose, e non soltanto quelle della politica. E ciò accade anche tra coloro che si proclamano avversari di quel sistema di valori. Accadde in grande stile con l’affermazione di Silvio Berlusconi; poi, accadde con il federalismo quando la Lega di Bossi si affermò sulla scena nazionale; più di recente è accaduto con certi temi cari al grillismo delle origini; sta forse accadendo adesso con una certa idea di nazione e di onore; per adesso, a quanto pare, soltanto nel linguaggio utilizzato, almeno a Repubblica.

Il fatto è che le parole e i toni che si utilizzano non sono un fatto neutro: spesso sono la spia dell’egemonia culturale raggiunta da colui il quale quelle parole e quei toni ha imposto, a maggior ragione quando quelle parole entrano nelle abitudini degli avversari. Purtroppo, come anche è accaduto nella storia politica recente, è possibile che dopo le parole si finisca per cedere anche sui contenuti. Come ci insegnano alcuni grandi, da Pasolini a Monicelli, il rischio maggiore per questo paese è quello della omologazione che in politica si manifesta con la pretesa di combattere l’avversario facendosi simile a lui, e però è quasi sempre finita che poi si è diventati davvero come l’avversario.

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