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Nonostante i soffietti preventivi, «1992» di Sky è una mezza patacca
Accompagnata da plurimi soffietti giornalistici peraltro preventivi, nella convinzione sin troppo ottimista che chi ha fatto bene come Sky dovrà fare ancora meglio, è partita «1992», fiction molto attesa che racconta quello snodo della nostra storia che si identifica con l’anno chiave di Tangentopoli. I soffietti preventivi sono da sempre un pericolo, soprattutto perché sbilanciano la nostra disposizione d’animo nei confronti della creatura, ponendoci magari in posizione guardinga o, al contrario, sovraccaricando di aspettative il prodotto. Uno dei pericoli, a ventitré anni di distanza, era che il tessuto si rivelasse un po’ stinto pur essendo più che mai viva la corruzione, autentico filo rosso delle nostre esistenze. E la stoffa, effettivamente, sentiva i suoi anni, non tanto per il tempo passato, quanto per la comprensione e lo sviluppo di certi fenomeni.
Gli autori, gli sceneggiatori, hanno certamente afferrato un punto, che nella narrazione assume persino più importanza di Tonino e i suoi prodi: la storia di Publitalia, il suo ruolo, la sua dimensione politica. Qui purtroppo la sceneggiatura annaspa, annaspa soprattutto nell’espressione più diretta di quel mondo, la figura di Marcello Dell’Utri, che viene dipinto come un modesto Andreotti persino incasssato nelle spalle, quando invece di Dell’Utri erano noti e simbologicamente significativi persino i potenti revers delle sue giacche doppiopetto. Sono caduti in un tranello, i giovani sceneggiatori: mettere sulle spalle di Dell’Utri l’armamentario siciliano, i silenzi, le mezze parole, gli sguardi sottesi, come se egli esercitasse anche nei corridoi dell’azienda e con i suoi dirigenti quegli stanchi rituali da paesello assolato di provincia. E invece no, il capo di Publitalia è stato un perfetto milanese-siciliano, dentro il suo tempo, dentro la sua città, da bere quando c’era da bere, da mangiare quando c’è stato da mangiare. E poi l’atmosfera: quegli uffici di «1992» paiono due camere e cucina di una stanca immobiliare, ma Publitalia non è mai stata dimessa neppure in quegli anni in cui la pubblicità cominciava a battere in testa.
Ci sono poi gli “errori” che per gli appassionati costituiscono uno sfregio nel tabernacolo della purezza cinematografica. La scena del cesso, in cui Accorsi/Notte dialoga brevemente da dietro una porta con Berlusconi. Alla fine lo saluta con un «Cavaliere» che è da matita blu: nessuno in azienda lo chiamava così, per tutti, e qui la fida Marinella Brambilla ne è testimone assoluta, era “il Dottore”, poi negli anni Presidente, ancor più presidente dall’86/87 anno in cui prende il Milan. Cavaliere è una piccola e comprensibile ruffianeria autorale, è l’appellativo più noto negli anni della politica e agli sceneggiatori è piaciuto retrodatarlo. Altro errore blu: la gita romana per convincere Martinazzoli & C. a scendere direttamente in campo contro il pericolo comunista. La gita è fuor di luogo, nessuno si poteva muovere da Milano, nessuno ne poteva avere l’autorevolezza, perché quelle situazioni venivano gestite direttamente a Roma da Gianni Letta, il quale misteriosamente non compare.
Pubblitalia, semmai, compare con una certa proprietà nella casa di Accorsi/Notte, una casa di design dove il proprietario non ha la minima confidenza con gli oggetti, messi quell’ordine costitutito da quegli sfascia-sentimenti che erano gli architetti di quei tempi. E Notte, in fondo, assomiglia discretamente a una figura chiave di quegli anni che fu il Bebo Martinotti, bellissimo ragazzo dei tempi, procacciatore di gnocca per il Dottore insieme al mitico maestro di tennis di Berlusconi, il quale girava in Rolls bianca e “testava” preventivamente le ragazze che poi girava al Capo (quando il Capo venne a saperlo lo cacciò senza troppe cerimonie).
Ma insomma, su Publitalia è mancato un po’ il coraggio, a dimostrazione che quella storia è ancora tormentata, ci si è fermati al Dell’Utri iconografico, senza il coraggio di peggiorarlo o, operazione comprensibilmente ardita, addirittura di migliorarlo. No, Dell’Utri è lì, incassato nelle sue spalle come un modesto Andreotti.
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