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Niente fatti, siamo giornalisti italiani. Vizi e virtù da Beccaria a Eco
Il giornalismo italiano? È fazioso. Non è obiettivo. Non sa dove stiano di casa i fatti. È asservito alla politica. Spesso abbiamo sentito dire, o ci è capitato di dire, frasi come queste riguardo ai nostri giornali. Si tratta di semplificazioni, ovviamente, di giudizi emotivi che sintetizzano una realtà ben più complessa.
La questione è più che attuale in questo periodo in cui le prime pagine riportano notizie che vanno dall’Isis e dal terrorismo internazionale alle unioni civili e alle adozioni. Ma il dibattito, e il disagio, più vistosi o sotto traccia, si riaprono ogni volta che sui nostri giornali si parla, tra le altre cose, di diritto della famiglia, di fecondazione assistita, di riforma del mercato del lavoro o della Costituzione repubblicana, di leggi sull’immigrazione o sulle tasse.
Anche Umberto Eco, scomparso ieri e intellettuale attento, nel corso di un’attività ampia e multiforme, all’universo dei media, nel suo ultimo romanzo, Numero Zero (Bompiani, 2015), ambientato nel 1992 e dove la storia recente d’Italia appare sotto una luce grottesca, cerca di mostrare quanto sia facile per un giornale veicolare un racconto deformato della realtà e attivare meccanismi che alimentano vere e proprie macchine del fango. E il tema di come una menzogna possa diventare storia, fuori dallo stretto ambito mediatico, Eco lo tocca già in Baudolino (Bompiani, 2000). E ancora prima ne Il pendolo di Foucault (Bompiani, 1988) pone l’attenzione, attraverso una raffinata decostruzione, sulle logiche e sugli slittamenti progressivi di opinione che spesso supportano le teorie dei complotti e delle cospirazioni globali.
In Italia, come in ogni luogo, c’è sia giornalismo ottimo, o almeno buono, sia informazione cattiva, di parte e distorta. Qualcuno potrebbe anche dire che la faziosità e la propensione a stare da una parte siano tendenze ravvisabili a più riprese nel costume italiano stesso, nella nostra storia: grande capacità diffusa di gestire gli interessi privati, di mettersi in proprio, di arrangiarsi e di fare da sé, contro uno scarso senso generale della cosa pubblica, dei bisogni della collettività. Ma da qui a giustificare gli esempi peggiori del nostro giornalismo ce ne corre. E però, restando nel campo dell’informazione, concedersi un piccolo excursus storico può essere un esperimento interessante.
Facciamo un giro a ritroso nel tempo. In Italia il giornalismo moderno si impone più tardi che nei paesi del nord Europa. Per giornalismo moderno si intende una sorta di industria delle news, supportata dalle vendite e dalla pubblicità e specializzata nel fornire ai lettori notizie di prima mano su cronaca, politica, economia e quant’altro accada nel mondo.
A Londra già nel 1702 viene stampato The Daily Courant, il cui direttore Samuel Buckley teorizza le basi della deontologia professionale, ispirandosi ai principi di credibilità e imparzialità, credibility and fairness, e affermando la necessità di separare i fatti dalle opinioni. Ovvero, l’embrione delle cinque W. E il famoso The Times di Londra già nel 1785, anno della sua fondazione, è quasi in tutto simile per organizzazione e modo di raccontare le news ai quotidiani che conosciamo oggi.
In Italia il primo giornale con queste caratteristiche è Il Secolo, fondato a Milano nel 1866 da Edoardo Sonzogno. Il Corriere della Sera inizia a essere stampato dieci anni dopo. I motivi di questo ritardo? In primo luogo, c’è che soltanto dopo l’unità la libertà di stampa prevista dallo Statuto Albertino sarà un diritto tutelato dalla legge in tutte le regioni italiane. E poi l’Italia preunitaria, divisa e in deficit di democrazia non è un luogo adatto per fare soldi con le notizie: rispetto all’Europa del nord mancano un mercato della pubblicità solido e un sistema postale adeguato.
Le prime testate giornalistiche italiane importanti però sono di molto anteriori e hanno una forma e una caratterizzazione inconfondibili. Il Caffè dei fratelli Alessandro e Pietro Verri e di Cesare Beccaria esce dal 1764 al 1766, in una Milano dominata dagli austriaci, e, sul modello dell’inglese The Spectator, si propone di diffondere presso l’opinione pubblica le idee illuministe e innovatrici e la relazione empirica con la realtà che avevano i suoi fondatori. Il Conciliatore, fondato, sempre a Milano, nel 1818 e soppresso l’anno dopo dalla censura austriaca, è la voce delle visioni romantiche e progressiste di Silvio Pellico, Giovanni Berchet e degli intellettuali che si riuniscono attorno a loro.
Il Caffè e Il Conciliatore sono stati esempi di grande giornalismo di opinione, strumenti con cui élite culturali d’avanguardia hanno provato, senza compromessi, a spiegare la loro visione dello stato delle cose, le loro idee sulle possibilità del futuro. Insomma, tra i padri del giornalismo italiano ci sono Beccaria, Berchet e i loro compagni di viaggio. E si tratta di padri nobili, di cui essere orgogliosi. È bene ricordarselo.
Non si vuole, sia chiaro, a partire da un rapido flashback, dal richiamo di due esempi lontani e significativi, tracciare una teoria. Questa è soltanto una riflessione, una specie di brainstorming e, in fondo, anche una provocazione. I fatti e le cinque W sono da tempo entrati a far parte del nostro giornalismo. Ce lo ricorda un insieme dettagliato di regole deontologiche, ove la professionalità e il buon senso non bastino.
Ma probabilmente è vero che, considerandone la storia, nel nostro modo di fare informazione è forte la tendenza a sottolineare un punto di vista sul reale, una prospettiva culturale. E questo non è, di per sè, un male, anzi può essere una ricchezza. Sempre che si raccontino con onestà, se non proprio con un’obiettività sempre difficile da raggiungere, i fatti, tenendoli ben separati dalle opinioni.
Il problema è che nel tempo, e troppe volte, da noi il giornalismo d’opinione si è piegato a logiche politiche o di fazione, ha scelto vie facili e corrotte. Ancora, ha dimenticato l’approfondimento culturale, ha puntato al consenso emozionale di un pubblico potenziale. Un esempio di questo modo di informare, tra moltissimi, è il titolo “Bastardi islamici”, brutale, semplificatorio, fatto dal quotidiano Libero all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre scorso. Ma dentro questa analisi ci stanno anche altre cose. Non ultima la Rai e la sua informazione, tanto spesso permeabile ai voleri dei partiti.
Sarebbe bello considerare tutto questo come una degenerazione. Scegliendo di essere ottimisti, si potrebbe ipotizzare di essere stati testimoni della corruzione di uno spirito originario ben più alto. Così, verificate e date con cura le notizie, se ci viene di affiancare ai fatti una chiave di lettura, facciamolo pure, senza paura e mantenendo distinti i due piani. Ma cerchiamo sempre di farlo passando per lo studio e per un approfondimento rigoroso, non cediamo alla tentazione di manipolare i nostri lettori. Seguiamo la lezione che ci hanno lasciato in eredità Il Caffè e Il Conciliatore.
In copertina, L’Accademia dei Pugni di Antonio Perego.
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