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Nei suicidi la notizia è nella storia mai nel nome

18 Settembre 2016

Per consolidata consuetudine i suicidi non si danno. Il suicidio per i giornali è, di norma, una questione privata. Si tratta di un relitto del Ventennio, ed è evidente che si tratti al tempo stesso di un fortunato caso di eterogenesi dei fini: i suicidi non si danno non più per ragioni politiche o per il timore che certi fatti «possano esercitare una pericolosa suggestione su gli spiriti deboli od indeboliti», bensì semplicemente per il rispetto che si deve e perché, semplicemente, di norma non sono una notizia. Poi, sì: ci sono le eccezioni; ma, salvo non si abbia a che fare con una persona nota, l’eccezione è sempre nella storia, mai nel nome, il quale dunque si usa tacere.

Le cose sono andate diversamente per la ragazza che si è tolta la vita qualche giorno fa, non sopportando lo scempio che di sé altri andavano facendo. Quello scempio, poi, è proseguito anche dopo la sua morte, nelle parole sconvolgenti di coloro i quali, attraverso i social network, hanno continuato a offenderla, ma anche – quasi distrattamente – in quelle di coloro i quali hanno preteso di poterla difendere scrivendo sui quotidiani della molteplice violenza subita da quella ragazza in addolorati e indignati articoli per lo più vistosamente provvisti di foto, nome e cognome di quella stessa poveretta la quale, si sottolineava ineffabilmente in quegli stessi articoli, oramai ambiva soltanto all’oblio.

L’assurdo di tutto ciò dovrebbe essere evidente, come anche l’inevitabile accorciamento della distanza tra gli sguaiati assalitori verbali della poveretta e certi suoi asseriti difensori i quali, diciamo per distrazione, hanno continuato ad esporla anche dopo la sua morte, continuando a insistere su certi particolari, brandendone nome foto.

Sarebbe stato sufficiente, com’era d’uso, inventare un nome fittizio, evitare di pubblicare certe fotografie – quelle col suo volto, soprattutto – poiché, come detto, in casi come questo la notizia è nella storia, mai nel nome. Eppure non è andata così. Male. E, anzi, malissimo. Quasi uno scempio realizzato senza intenzione, poiché la sensazione è stata che coloro che hanno raccontato questa brutta storia non si siano resi conto di ciò che stavano contribuendo a realizzare. Né vale la giustificazione che così fan tutti e, se di quelle fotografie e di quegli elementi era oramai piena internet, allora perché i giornali non avrebbero dovuto? Ecco, il fatto è che ci sarebbero delle regole – prima di tutto quelle della deontologia – e che sarebbero proprio le regole a fare la differenza tra libera condivisione di parole sui social network e informazione quotidiana, e anche tra informazione quotidiana e spettacolo televisivo, poiché dalla informazione ci si aspetterebbe ciò che non ci si aspetta dallo spettacolo o dalla mera condivisione di opinioni. E, peraltro, ci sarebbe anche una particolare specie di sensibilità che è richiesta ai giornalisti nel saper riconoscere quando un fatto, o il particolare di una storia, siano notizia o inutile orpello da non esporre per rispetto e perché non necessario alla cronaca.

Ma forse anche nel mestiere della cronaca oramai qualcosa è cambiato e quella sensibilità si è persa nella mostra di fotografie e particolari che andavano arricchendo anche gli articoli dolenti che, su carta e su web, proclamavano – evidentemente soltanto per gli altri – la necessità del rispetto. E così, in quella sfilata di fotografie inutilmente esposte e di particolari non necessari, la notizia ha lasciato il passo ad altro. Forse, allo spettacolo, quello stesso spettacolo al quale da tempo ha ceduto di schianto anche la politica.

Già da molto tempo lo stesso è accaduto in televisione dove però, tranne qualche eccezione che si commenta da sé, a raccontare la vita e la morte, a raccontare la cronaca, non sono giornalisti ma altre figure professionali: ma poi è difficile spiegare questo ai lettori che fanno la somma di tutto, e infine traggono le dovute conclusioni, addebitando tutto ai giornalisti. Quanto ai social network, a quanto pare vale tutto, ma almeno è ben chiaro che non si tratta di giornalismo bensì di condivisione di opinioni tra persone, e dunque ciò che si è detto sin qui non è possibile applicarlo, né sarebbe giusto.

Prima o poi, però, si tratterà di capire dove sia finita la differenza – oggi, non ieri: oggi – tra informazione, condivisione e spettacolo, poiché ciascun ambito ha le sue regole, e senza rispettare quelle regole ciascuno di questi mondi è destinato a tradire i propri lettori o ascoltatori. Ciò vale soprattutto per l’informazione quotidiana, online o di carta che sia. Travolgere quelle regole, farsi uguale agli altri, equivale ad azzerare la distanza. E se si deve assistere a ciò che si è visto in questi giorni, con i giornali che per lo più hanno smesso la propria funzione editoriale per ridursi a mero canale di smistamento senza neppure discernere tra notizie e ciò che notizia non è, se insomma i giornali si vanno facendo uguali a Facebook, allora tanto vale fare direttamente a meno dei giornali e tenersi Facebook, scelta che, evidentemente, molti lettori purtroppo hanno già fatto da tempo.

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