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Morto il giornalismo, non se ne farà un altro: cosa lo sostituirà?

18 Gennaio 2018

Abbiamo conosciuto molti borghesi che nel tempo hanno accarezzato l’idea di fondare un giornale o magari comprarsene uno (usato). Li accompagnava un finto senso di sacrificio economico, unito a quell’idea d’essere migliori tra i migliori perché dediti a un’operazione culturale di una certa profondità, garantendo al Paese quel sacro principio che è ancora la libertà di stampa. I giornali in sé non hanno mai reso ricco nessuno, anzi – acquistandone uno – ci si votava a disperdere serenamente denari in nome di una riconoscibilità sociale per certi aspetti unica.

Abbiamo visto, l’altra sera, Carlo De Benedetti, in versione lacrimosa, enumerare elegantemente i milioni su milioni che gli erano usciti dalle tasche per salvare Repubblica. Ora cinquanta delle vecchie lire, donati a Scalfari a fondo perduto, ora quel “pacco di miliardi” – ottanta per la precisione e sempre delle vecchie lire – con cui rese l’Eugenio un Paperone, ottenendone in cambio la proprietà assoluta di Repubblica. Ci ha anche narrato, Cdb, delle sue conoscenze mondialiste in termini di Potere, enumerando le tavole a cui aveva mangiato e i salotti in cui s’era seduto: da Helmut Kohl a Bill Clinton, passando per i presidenti francesi. Quando ci dice che con Repubblica “ho solo perso soldi”, ci si dovrebbe interrogare sul motivo fondamentale per cui a quelle tavole sei stato invitato con tutti gli onori. Lui forse, Cdb, penserà per la forza della sua storia d’impresa che invece è piuttosto discutibile, in realtà, molto più prosaicamente, perché era l’editore del giornale più importante d’Italia.

Perdere sì dei soldi, dunque, ma essere molto considerato e riverito dai mondi politici ed economici. Ecco che cosa ti permette un giornale autorevole, entrare nei salotti migliori e sventolare orgoglioso ai mariti delle signore che non contano quanto te una copia del tuo manufatto. Tutto il resto sono bubbole. Se dobbiamo guardare cosa resta sul campo di questa bella borghesia, dovremmo concludere: nulla. La sintesi massima dell’onanismo capitalista fu perpetuata all’infinito da quegli avventurosi del Corriere della Sera che venivano definiti “pattisti”, e che a ogni tot cambiavano formazione, immettendo un nuovo ed espellendo un vecchio. Alla fine di questo estenuante giocherello, che garantiva alle aziende di riferimento poche rotture di coglioni giornalistiche, sappiamo come è andata a finire: è arrivato l’outsider che si è pappato via Solferino, mentre gli altri erano ancora in cordata a sistemare le piccozze.
La scomparsa della borghesia, peraltro, venne già anticipata dall’arrivo sulla scena politica del più risoluto di tutti loro, che mai si era presentato neppure a un’assise di Confindustria schifandone le conventicole.

Berlusconi aveva già chiaro il declino di un’epoca e visto che nessuno s’era organizzato per fare sistema contro il pericolo comunista, anche perché non appariva così nitido all’orizzonte, prese da solo l’iniziativa e sappiamo tutti come è andata a finire. Quando si parla della morte certa dei giornali – l’ultima copia di carta del NYT dovrebbe essere venduta nel 2043 – non si tiene conto delle condizioni sociali di ogni borghesia contemporanea. Solo una borghesia molto attrezzata, culturalmente appassionata, può salvare i prodotti giornalistici da un inevitabile declino, soprattutto dalla sopraffazione tecnologica che rende il giornalismo altra cosa rispetto al passato. Per restare in Italia, scorriamo i nomi degli editori più rappresentativi, così giusto per capire se questa speranza può rimanere viva e lottare insieme a noi: De Benedetti e qui se il padre sta cosi, i figli non sembrano offrire garanzie migliori, Cairo, che spulcia fattura per fattura, Caltagirone, al quale il Messaggero assomiglia così tanto e onestamente non è un gran risultato.

Insomma, fate pure uno sforzo di memoria, ma da questi signori quando è stata l’ultima volta che avete ascoltato una sollecitazione culturale degna di questo nome? Se il mestiere dunque va a morire, la colpa è certamente condivisa: da una parte i giornalisti, ai quali un’epoca di stomachevole contrapposizione ha reso molto più semplice e naturale l’incarnazione della figura del lustrastivali prepotente, quello che con la massima faccia di bronzo parla per interposto politico, quello a cui il giornale non ha nemmeno più il coraggio di dire: guardi giovanotto/a, lei non può leccare il culo in questo modo indecente perché abbiamo una reputazione da difendere. E invece, a questi funzionari di partito con tesserino dell’Ordine viene consentito di spadroneggiare nelle redazioni, di urlare nelle televisioni, di rappresentare la testata in quel modo indecoroso, e solo perché, verso il calar della sera, il/la nostro/a caro/a leccaculo/a porta in dote le quattro stronzate che il portavoce di Renzi ha interesse a far circolare (abbiamo citato Renzi, solo perché il suo periodo da premier fu la sintesi massima di tutto questo fenomeno leccaculista). Dall’altra parte, dalla parte degli editori, c’è un sostanziale nulla.

Forse per una congiuntura sfortunata, forse perché buttare oggi dei soldi senza il peso dei giornali di un tempo è solo degli incoscienti, sta di fatto che i padroni del vapore sembrano omini stinti in cerca di una via d’uscita. Una volta ci si intestavano battaglie, erano i segni distintivi dei buoni giornali, se del caso si chiedevano le Dimissioni dei potenti, erano, quelle, le battaglie nelle quali scendeva in campo anche l’Editore perché la democrazia chiamava tutti i suoi uomini migliori a partecipare. Evitate dunque di farvi del male, piangendo con «The Post» di Spielberg, quel tempo è andato e sicuramente (almeno da noi) non tornerà.

I figli di questi padri, dei vari De Benedetti, Berlusconi, ecc., fanno amabilmente gli affari loro, nessuno ha ereditato passioni, nessuno pare avere il talento della tenacia democratica, se non proprio il talento puro dell’editore. Ma insomma, fare questo mestiere non interessa praticamente più a nessuno, nessuno ambisce più a presentarsi nei salotti che contano con in mano la copia fresca del prodotto perché nessuno ti guarderebbe più con l’adorazione di un tempo. E neppure pare esserci uno sforzo per far diventare l’online il prodotto da sventolare in giro, il mezzo con cui penetrare la società raccontandola nelle sue viscere più inquiete, al di là della evidente forza delle immagini. L’online dunque non può essere riflessione, non si possono muovere battaglie da quella tolda di comando, è solo modesto passacartismo o possiamo sperare che il confronto e anche lo scontro democratico possano passare di lì? Nell’attesa, la domanda che più ci incuriosisce è la seguente: sparito il giornalismo (e i giornali naturalmente) da cosa sarà sostituito?

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