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Mmasciata.it, lezioni di giornalismo dalla Calabria
Capire il perché degli scioperi che stanno bloccando l’Argentina. Farsi guidare nel cuore di ghiaccio dell’Europa, Belgrado, da un reportage che darebbe i numeri, per la qualità, a quelli scritti per testate più blasonate, magari da inviati più abituati a fare rassegna stampa dalla hall di un hotel che non a consumare le suole delle scarpe. Il racconto e la qualità della scrittura. Utilizzati come cifra distintiva prima ancora che termini come “narrazione” e “storytelling” prendessero il sopravvento e fossero svuotati e banalizzati dal loro uso e abuso.
Il merito è di alcuni ragazzi calabresi, oggi un po’ meno ragazzi, di un piccolo paese della Presila. Una quindicina di anni fa hanno dato vita a Mmasciata.it, il “deus ex machina” è stato Alfredo Sprovieri. Nato nel 1982, si occupa di giornalismo d’inchiesta. Fra le tante è stato redattore centrale a Calabria Ora e ha scritto per Vanity Fair e Repubblica. Nel 2002 è stato fondatore di Mmasciata,it, che da alcuni anni è tornato a dirigere.
Partiamo dall’inizio: come si può tradurre “Mmasciata” per i non calabresi e perché lo avete scelto come nome prima del collettivo e quindi del giornale?
Mmasciata è un termine che ritrovi in quasi tutte le lingue meridionali legate alla tradizione napoletana, una parola che infatti usava Totò ma pure i personaggi della serie Gomorra. Ha moltissime varianti e accezioni, anche negative e noi volevamo giocare con i molti sensi. Nella stradina del centro storico di San Pietro in Guarano (3mila anime ai piedi della Sila) dove decidemmo di adottarlo, anticamente indicava la lettera di intenti amorosi che il corteggiatore consegnava alla famiglia dell’amata. Volevamo fare una cosa con quello spirito: un giornale è una lettera d’amore al proprio territorio. Quasi mai corrisposto.
Operate da un piccolo centro ma pubblicate contributi da tutto il mondo, spesso reportage realizzati talmente bene che date i numeri ai grandi giornali. Chi sono i ragazzi che scrivono e quanti sono?
Ci siamo accorti da poco che abbiamo pubblicato contenuti originali da più di 25 paesi nel mondo: dalla Cambogia al Brasile, dal Libano al Myanmar e alla Corea del Nord. Eravamo nelle file di migranti a Idomeni come a Belgrado ed è stato possibile perché crediamo che questo mestiere si faccia ancora con i piedi, ma soprattutto perché rappresentiamo qualcosa di familiare per la cosiddetta generazione che mi piace non più appellare ‘Erasmus’ ma ‘Regeni’. Con noi collaborano decine di ragazzi e ragazze migliori dei propri genitori, risorse professionali che non si sentono rappresentate dai media di questo paese e che faticano a trovare una connessione sentimentale con le grandi redazioni. Per essere chiari: c’è chi preferisce il nostro rispetto del lavoro e la nostra cura dei dettagli alla disumana sequela di mail senza risposta dai giornali, soprattutto quando si tratta di pagare.
Il vostro motto è “un altro modo è possibile”, mentre nella presentazione dei vostri “difetti”, cito testualmente, affermate: “Crediamo profondamente nella libertà di stampa come in quella di opinione e le difendiamo con le armi della fantasia e siamo convinti che la nostra vita sia la notizia più importante”. Che vite sono le vostre?
Queste cose le scrivemmo a 20 anni, potrebbe suonare un po’ retorico ma in realtà volevamo solo dimostrare che oltre vittimismo e allarmismo c’è una strada terza e ragionata per l’informazione: solo contenuti originali, senza i titoli virgolettati della peggiore classe dirigente di sempre, senza copia e incolla dai comunicati stampa e tenendo sempre in considerazione la dignità della persona. Siamo partiti nel 2002 convinti di tutto questo e oggi notiamo che la ricetta di grandi testate internazionali per uscire dalla crisi gli somiglia. Le nostre vite sono quelle precarie di una generazione disillusa, che probabilmente capirà solo fra tanti anni di aver combattuto a mani nude una guerra di resistenza. Per questo nel quotidiano ci rendiamo conto di quanto sia importante crescere insieme e auto formarsi in modo permanente. Molti ragazzi che hanno iniziato con noi hanno portato questo metodo nella loro esperienza lavorativa e in questi mesi siamo impegnati in un ricambio generazionale, aprendo alle ragazze e ragazzi della generazione Zeta, con tutte le loro interessanti peculiarità.
Nel 2015 vi siete aggiudicati il Calabria Web Award, quante visite ha oggi il sito, vi capita qualche volta di chiedervi “ma ne vale davvero la pena?”.
Quello è stato un momento importante. Il premio è stato inaspettato perché in lizza c’erano testate con disponibilità economiche e bacino di lettori imparagonabili con le nostre, ma ci hanno spiegato che è arrivato grazie alle decine di migliaia di voti sul Web e alla valutazione di una giuria di esperti. Dopo quel momento abbiamo deciso di investire in un progetto di innovazione che ci è stato praticamente rubato e ammetto che dopo è stato molto difficile rialzarsi. Lo è tuttora, continuiamo a rivolgerci a una comunità digitale che è in crescita, ma che rappresenta pur sempre una nicchia. Parliamo di piccole cifre, ma le persone non sono numeri, ma oceani e fino a quanto avremo una storia da raccontare e una persona disposta ad ascoltarla penso che varrà la pena farlo il meglio possibile.
Tu conosci molto bene il giornalismo calabrese, dove ti sei formato: qual è il suo stato di salute oggi?
Mi pare di capire che viva una stagione molto cupa, si legge ancora meno e peggio del passato e questo ha effetti devastanti in termini di cittadinanza attiva. Ci sono colleghi bravissimi che operano in condizioni che possiamo tranquillamente definire di schiavitù e la situazione non è che lo specchio di una società assoggettata alle commistioni perverse fra organizzazioni criminali, imprenditoria malsana e cattiva politica: i grandi network arrivano sempre qui quando devono fare le grandi inchieste, ma il giorno dopo vanni via e lasciano tutto com’è. Vedo poche vie d’uscita.
Il potere in Calabria, per quel che ricordo, non ha mai fatto mistero di privilegiare querele e denunce per mettere a tacere le voci scomode. Ne avete collezionate anche voi?
Una maledizione professionale che conosco bene, ma con Mmasciata negli anni abbiamo affinato un metodo di denuncia che finora ci ha permesso di guardare alla luna e non al dito, mettendoci a riparo da queste attenzioni, pensa che pur toccando diversi nervi scoperti non abbiamo mai ricevuto nemmeno una richiesta di rettifica ad un articolo. Probabilmente sfruttiamo anche il fatto di essere trasparenti e di non avere padroni. La libertà è anche un potere, e mettersi a perseguitare dei ragazzi che non hanno nulla da perdere probabilmente non serve ai loro scopi. Una delle cose più interessanti che ci capita infatti, non solo in Calabria in verità, è quando un collega ci chiede: ‘Il giornale non me la fa pubblicare, mettetela voi’.
Riuscite a sostenervi con le sottoscrizioni e quali sono i progetti in cantiere?
Siamo ancora in una fase in cui in pochi sono disposti a pagare online un caffè a chi si è preso cura del suo diritto dovere di essere informato, con i pochi fondi raccolti dal sito abbiamo pagato le spese e sposato progetti di solidarietà nei sud del mondo. Forse un giorno qualcuno ci darà una mano ma nel frattempo penso però che sostenersi ormai debba significare qualcosa di più profondo dall’illusione del lavoro salariato, per questo vogliamo rompere le solitudini create da chi ha voluto legioni di giovani professionisti in pigiama. Come ogni anno in questi giorni ci stiamo preparando alla trasferta di massa al Festival del giornalismo di Perugia, un’occasione rara per chi è nessuno come noi. Lì ci contamineremo e svilupperemo meglio una serie di innovazioni digitali a cui stiamo lavorando, il sogno che condividiamo però è quello di poter tornare ad occuparci della cura di una comunità offline, di creare una redazione aperta ai cittadini, una casa di tutti dove la nostra vita ritorni la notizia più importante.
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