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Mattia Feltri: “Sì allo Ius Scholae, il futuro dell’Italia è l’immigrazione”
Spero di non fare torto a nessuno se dichiaro che Mattia Feltri è uno dei miei giornalisti preferiti. Quando ha accettato il mio invito, ho subito rifiutato la possibilità di fare l’intervista via web e mi sono recato a Roma, dove mi ha accolto presso la sede del gruppo Gedi, nella redazione di HuffPost.
Un piacevole incontro senza limiti di tempo, dove abbiamo parlato della sua carriera da giornalista (anche se a lui non piace esserlo), del rapporto con suo padre Vittorio, del suo “Buongiorno” e di molto altro. Non sono mancate, come di rito, alcune domande di attualità.
L’intervista risale al 6 luglio scorso, quando il governo Draghi non era ancora a rischio dimissioni; mi avrebbe fatto piacere un suo parere in merito e una sua visione sull’eventuale proseguimento della legislatura, che ha prontamente espresso in due articoli sul HuffPost nel weekend.
A diciannove anni, inizi a collaborare con la redazione del Giornale di Bergamo, venendo poi assunto nel 1992. Fra i fondatori del Foglio dove diventi inviato, un breve passaggio a Libero e dal 2005 alla Stampa, prima come inviato, poi capo della redazione romana, infine editorialista. Dall’aprile 2020 direttore di HuffPost. Ci racconti questi passaggi della tua carriera?
A 19 anni inizio la collaborazione con il giornale di Bergamo, perché, come tutti gli studenti universitari, per poter uscire alla sera con gli amici avevo bisogno di qualche soldo. Facevo lavoretti saltuari e mio padre mi offrì la possibilità di collaborare con il Giornale di Bergamo, da lui stesso diretto molti anni prima. Tutto pensavo nella vita fuorché fare il giornalista, ma in quel contesto potevo mettere insieme le due cose che più mi piacevano: leggere e scrivere. La vita di redazione era particolarmente divertente, sembrava di stare in un grande bar dove non c’erano orari, non c’era routine, cominciai a guadagnare qualche soldo, rimanendo imbrigliato però in una professione, che continua a non piacermi, non mi piace l’idea di fare il giornalista, di alzarmi la mattina e cercare le notizie, lo scoop (non ne ho mai fatto uno in vita mia e se li ho fatti non vorrei venissero definiti tali). Ho sempre cercato di sfuggire al mestiere di giornalista, facendo il giornalista, e per lunghi periodi ci sono anche riuscito. L’aspetto positivo era dedicare parte del tempo della giornata alla lettura, alla scrittura e a capire il mondo, e pure retributo. Quattro anni dopo venni assunto, il mio primo stipendio fu di 1.700.000 Lire, che all’età di 23 anni da studente universitario non era niente male, ero il ricco del gruppo. Il giornale poi ha chiuso e domandai aiuto a Renato Farina che lavorava con mio padre, lui mi procurò un appuntamento con Gigi Amicone che stava lanciando “Tempi”, una specie di successore del “Sabato” che nel frattempo aveva chiuso. Però ormai era tardi, le assunzioni erano state fatte. Gigi Amicone mi mandò allora da un suo amico, Ubaldo Casotto, oggi uno dei miei più cari amici, che a quei tempi stava cercando di rilanciare “Il Borghese”, e venni preso in prova per un periodo. Una mattina arrivò Giuliano Ferrara che aveva concluso la sua esperienza di governo nel 1995: voleva fare “Il Foglio”, lui aveva un gruppo di collaboratori stretti, gli serviva una redazione e qualche ragazzo di bottega, e io facevo parte di quei ragazzi. Così iniziò la mia vita a “Il Foglio”, l’esperienza più inebriante della mia vita, un’avventura pionieristica, arrivata nel momento in cui stava partendo internet. Un giornale che, pur con numeri contenuti, è arrivato a ben 26 anni di vita, un legame per me ancora oggi intenso. Con Claudio Cerasa siamo amici e ogni tanto ventiliamo un mio ritorno a Il Foglio, un po’ scherzando e un po’ no e prima o poi forse accadrà. Sono stati anni straordinari che mi hanno aiutato a capire che bisogna sempre ragionare in più modi, tu non puoi approcciare le cose in un solo modo, devi farlo in due-tre modi diversi, per cercare di avere uno sguardo più di insieme. Far parte de Il Foglio, mi ha obbligato a rimettermi seriamente a studiare, la mia formazione di allora era inadeguata per un giornale così “di livello” e con così alte pretese. A 26 anni ho smesso di uscire alla sera con gli amici e mi sono messo a studiare, leggevo libri di storia, di politologia, qualcosa di filosofia, ho riscoperto la goduria di studiare, che durante la scuola non avevo assolutamente. Penso che la scuola sia strutturata in modo da rendere antipatico tutto ciò che è bello, a cominciare dalla musica, insegnata coi solfeggi. In Italia riusciamo a rendere antipatica la musica, che è forse la cosa più bella che c’è al mondo. Dopo 8 anni, iniziai a sentirmi un po’ intrappolato, il mio rapporto con Giuliano Ferrara era diventato così simbiotico e così di fiducia, che non c’era più la sfida quotidiana. Percepii che che tutto quanto facessi andasse bene e continuasse ad andare bene per decreto e quindi decisi di andarmene. Mi resi conto che nessuno mi avrebbe portato via a Giuliano Ferrara quindi andai con mio padre a Libero, nell’attesa di una diversa sistemazione. Appena si sparse la voce venni chiamato da Stefano Folli, allora direttore del Corriere della Sera, che mi promise l’assunzione da lì a qualche mese e comunque entro la fine dell’anno, era il febbraio del 2004. A settembre però Folli concluse la sua esperienza al Corriere e non se ne fece più nulla. A fine anno arrivò la chiamata di Massimo Gramellini per conto di Marcello Sorgi e venni assunto alla Stampa. Dopo Sorgi arrivò Giulio Anselmi con il quale, dopo un po’ di diffidenza iniziale, soprattutto mia, ho avuto un rapporto straordinario, è stato l’altro grande direttore della mia vita, dopo Ferrara. Non sempre eravamo d’accordo, ma tra persone intelligenti, ammesso che io lo sia, si va d’accordo anche se non si è d’accordo. Fu un’esperienza durissima con un direttore che pretendeva molto, ma fu una grandissima esperienza professionale, ancora oggi siamo in ottimi rapporti. Sono arrivato poi qui all’Huffpost, per fare un’esperienza nuova. Penso che i giornali cartacei siano morti da moltissimo tempo, perlomeno per come sono concepiti adesso, probabilmente resisteranno, ma dovranno trovare un’altra formula, un altro ruolo e altre ambizioni. L’informazione si è spostata su internet, lo penso da moltissimi anni. Quando Maurizio Molinari mi ha proposto di venire a dirigere Huffpost sono venuto di corsa e con grande entusiasmo, penso che lì si debba fare giornalismo, perché è lì che va la gente. Pensavo allora, e lo penso ancora adesso, che esista un pregiudizio devastante su internet e sull’idea che in rete devi fare un’informazione leggera, rapida e sintetica. Non è assolutamente vero, su internet c’è tutto il mondo e si soddisfano tutti i gusti. Noi facciamo un giornale tendenzialmente di approfondimento, di opinione, indulge poco nella cronaca e abbiamo buoni riscontri, perché c’è un pubblico che vuole queste cose. Quello che faccio oggi mi piace, quando si fa qualcosa che piace bisogna pensare che sarà per sempre, io devo fare il direttore di Huffpost pensando a cosa sarà il giornale tra uno, due, sei, dieci anni, altrimenti non ha nessun senso, poi tutto potrà capitare.
Tuo padre mi ha raccontato che quando eri piccolo ti faceva fare le cronache delle partite cercando di descriverle e di fare un commento, è da lì che hai pensato di voler fare il giornalista?
No, a me da bambino piaceva scrivere e leggere. Presi da piccolo una malattia fastidiosa che mi costrinse a letto per diversi mesi. Mia nonna mi aveva un libro di Jules Verne, “L’isola misteriosa”, provocandomi un leggero sdegno, perché le mie sorelle avevano ricevuto giocattoli, e lo presi come un affronto. Ma lessi il libro e mi piacque tantissimo, mi si aprì un mondo e allora durante la malattia mio padre mi regalò l’opera omnia di Jules Verne e la lessi tutta. Mi piaceva molto anche scrivere. I miei genitori uscivano a cena la domenica sera e io guardavo Domenica Sprint su Rai2, vedevo le partite e facevo questi piccoli resoconti per mio padre, che non poteva guardarsi la Domenica Sportiva. Lui poi leggeva e correggeva gli errori, questa non era per me una passione per il giornalismo, ma soddisfaceva il mio desiderio di scrivere e di avere un rapporto con mio padre. Mi svegliavo al lunedì mattina e prima di andare a scuola leggevo le sue correzioni.
Cosa ha significato avere un padre come il tuo? Quanto ha influito sul tuo percorso e sulle tue scelte di carriera?
Mio padre ha influito su di me come tutti i padri influiscono sui propri figli, né più né meno, non penso che un padre commercialista influisca meno, anzi l’attività se funziona può essere tramandata, il lavoro di giornalista non si eredita come altre professioni, io mi ci sono ritrovato e mi sono piaciute alcune cose.
Quali sono stati i tuoi più grandi maestri?
Ferrara mi ha insegnato a ragionare in modo diverso e mi ha fatto diventare giornalista, Anselmi mi ha insegnato a fare il giornale, con lui ho fatto l’inviato e poi il capo della redazione romana, un’esperienza molto pesante, ma molto formativa. Spero di avere imparato qualcosa.
Quali consigli dai ai tuoi collaboratori, soprattutto quelli più giovani?
Leggere il più possibile, io oggi leggo molto meno di quanto leggessi prima, proprio per una totale assenza di tempo. Mi alzo alle 6.30 della mattina e inizio a leggere i giornali, esco da qui alle 20, ma due volte su tre, se non tre su quattro, quando arrivo a casa c’è da finire un lavoro, l’ultimo titolo, poi cerco di stare un po’ con la mia famiglia e la giornata è finita. Per cui il mio consiglio a chi ha più tempo è: leggere, leggere, leggere. È l’unico modo per poter fare due cose: far evolvere la scrittura che altrimenti resta sempre la stessa, rimane una scrittura pigra, povera e poco ambiziosa, e per continuare a ragionare, per cercare di capire questo mondo, pur consapevoli che non lo si capirà mai, ma se non si legge si rinuncia a priori. Leggere qualsiasi cosa, letteratura, saggistica, biografie, cercando, non soltanto di capire ciò che si legge, che mi sembra prioritario, ma anche, per alcuni scrittori in particolare, cercare di capire com’è la costruzione della loro frase, il loro uso delle parole. Il secondo consiglio è ascoltare musica, perché la musica ti dà ritmo e metrica, la scrittura è ritmo e metrica. Quando ti rileggi e sei abituato ad ascoltare musica, (senza pregiudizi, uno può ascoltare Mozart, i Radiohead, Miles Davis, va bene anche Ghali, anche lui deve rispettare ritmo e metrica,) ti accorgi subito se la tua prosa non ha musicalità.
Dopo 18 anni il Buongiorno firmato da Gramellini passa a te, un passaggio di testimone importante, ci racconti com’è andata e il tuo rapporto con Massimo?
Io e Massimo siamo praticamente amici da sempre, da molto prima che io andassi alla Stampa, ci accomuna la passione e il tifo per il “Toro”.
Quando lui decise di lasciare “La Stampa” ci fu una specie di psicosi, perché Massimo è stato un monumento per il giornale. Torinese, ha lavorato molti anni per il quotidiano, si è inventato la rubrica insieme a Marcello Sorgi, facendola diventare penso il pezzo più letto della stampa italiana di ogni giorno. Una sera mi telefonò Maurizio Molinari, un’altra tra le persone più importanti della mia vita. Ci conosciamo da molto tempo, è il direttore editoriale di questo gruppo, ed è stato il mio direttore alla Stampa, abbiamo un rapporto di amicizia che precede i nostri rapporti gerarchici. Quella sera, lui era già direttore de “La Stampa”, si trovava a Roma, io avevo ospiti a cena, mi telefonò e mi disse testuale: “Ho bisogno di vederti immediatamente ovunque tu sia”. Io abitavo vicino alla redazione del quotidiano e gli dissi “vieni quando vuoi”, non avevo nessuna idea di cosa volesse, sospettai che intendesse darmi il Buongiorno ma ricacciai il pensiero perché mi pareva un’enormità. Invece una volta arrivato mi disse: “Devi fare il Buongiorno”. Accettai ma gli dissi però che potevo farlo solamente come l’avevo in mente io, non potevo farlo come Gramellini, lo avrei scimmiottato e anche lui la pensava allo stesso modo. Ci fu però un grande equivoco: siccome avevo appena scritto un pezzo di buon successo sui compiti scolastici, lui credeva e voleva che io facessi un daily life, mentre io invece volevo fare tutt’altra cosa, avevo da molto tempo una serie di idee sul mondo, sulle vicende italiane, sulla nostra vita, il rapporto con la democrazia, con la libertà, con la responsabilità, e mi sembrava il momento di tirarle. Così quando iniziai a scrivere il Buongiorno era esattamente l’opposto di quello che si aspettava Molinari. È stata una persona talmente grandiosa che non me l’ha mai confessato, se non dopo molto tempo. Probabilmente perché il mio Buongiorno se l’è cavata sebbene all’inizio ci fosse un pessimismo quasi depressivo: un mio collega, Roberto Giovannini, a cui sono molto affezionato, venne da me e mi disse “grazie perché qualcuno di noi si doveva pur sacrificare”. Come dire, dopo Gramellini è inevitabile che la rubrica muoia, solo ci mancava il becchino. Questo era il clima. L’unico che ci credeva era Molinari. E ci credeva il mio amico Andrea Malaguti, oggi vicedirettore. Io ho pensato che era una grande occasione e al massimo l’avrei fallita, ma peggio di fallire le occasioni c’è solo di non averne. Certo, è una gran fatica, nessuno come Massimo o Michele Serra o Andrea Marcenaro può capire quanto sia difficile scrivere una rubrica quotidiana, magari facendo altro, nel mio caso dirigere un giornale. Devo dire che, da quando ho iniziato, sia Molinari sia Giannini non mi hanno mai chiesto di modificare nemmeno una virgola, entrambi sanno cos’è la libertà di opinione all’interno di un giornale. Chi scrive però deve saper esercitare con responsabilità la sua libertà, è importante sapere chi è il tuo direttore, che giornale sta facendo, in che giornale ti trovi e, considerato che la libertà non è assoluta – lo è soltanto per gli sciocchi – è fondamentale avere intelligenza e responsabilità per esercitare il massimo della libertà che ti è consentita in quel posto e in quel momento. Li ringrazio per non aver mai cambiato i miei pezzi, forse loro, credo, possono dire che io non li ho mai obbligati a chiedermi di cambiarli.
Ho trovato ottima l’intuizione di raccogliere in un libro (il libro dei giorni migliori) i racconti che quotidianamente hanno fatto parte del tuo “Buongiorno” sulla stampa, come e quando ti è venuta l’idea?
Quello è un libro a cui ero contrario e probabilmente continuo ad esserlo. Il mio amico Ottavio Di Brizzi di Marsilio quando era in Rizzoli mi chiese di scrivere libri per lui e non l’ho mai fatto. Scrissi poi “Novantatré: l’anno del Terrore di Mani pulite” per Marsilio, dove lui non era ancora arrivato, e non ne fu contento. Alla fine mi propose di scrivere questo libro, ma non mi piacciono le raccolte, soprattutto di rubriche, però alla fine mi ha convinto. Non ho fatto molto per far sapere che era uscito il libro, anche se devo ammettere che Francesco Merlo su Repubblica fece un bellissimo pezzo. Alla fine, sono stato contento, perché quel libro contiene un pezzo della mia vita, anche se non amo il passato, non sono un nostalgico, per me è importante il presente e il futuro. Credo abbia venduto 25 copie.
– 26 perchè una si trova nella mia libreria – aggiungo io
Giampiero Mughini, uno dei miei migliori amici mi disse, non riferendosi al mio libro ma in generale: “Non importa quante copie vendi, ma è importante che piaccia a chi lo legge”. Ha totalmente ragione e devo dirti, per quanto ne so, che chi la letto l’ha apprezzato.
Tra i tuoi nuovi progetti c’è spazio per un nuovo libro?
Ho scritto pochi libri nella mia vita, come ti dicevo non amo le raccolte di articoli, ma alla fine ho scritto solo libri che sono raccolte di articoli. Ne ho scritti tre, il primo “Il prigioniero, storia breve di Adriano Sofri”, una serie di articoli usciti sul Foglio che riguardavano appunto Adriano Sofri. Poi “Novantatré: l’anno del Terrore di Mani pulite” altra raccolta di articoli apparsi su Il Foglio, ma praticamente era già un libro, era come se fosse stato un libro pubblicato a puntate sul Foglio, quindi rimontato come libro penso funzioni benissimo. O almeno, è un libro a cui voglio bene e sono contento che Feltrinelli lo abbia appena ripubblicato nei suoi tascabili. Ma non sono uno che ama fare libri per impilare titoli, per il gusto di sentirsi scrittore o spacciarsi per tale. Ho rispetto dei libri e vanno scritti quando è indispensabile. Un progetto lo avrei, ma è un progetto enorme, che necessiterebbe di due o tre anni di lavoro e oggi non me lo posso permettere.
L’Huffpost ha incarnato un nuovo modo di fare giornalismo, mi riferisco ad una testata digitale nata negli Stati Uniti nel 2005, alla quale è seguita l’edizione italiana nel 2012, da lei diretta dal 2020. Come si colloca rispetto alle altre testate digitali e alle più tradizionali testate cartacee?
Siamo probabilmente l’unico vero giornale on line, senza nulla togliere ad esempio al Post di Luca Sofri che è fatto molto bene, ma non è un quotidiano classico come lo intendiamo noi, è un modo diverso di raccontare il mondo, scegliendo un certo tipo di argomenti, di approfondimenti. Dagospia, che ha un grande successo, è una grande antologia ragionata, molto ben fatta da Roberto D’Agostino, ma è una cosa diversa. Penso che noi rappresentiamo forse l’unico quotidiano on line, poi ci sono i giornali di carta con un’edizione on line. Siamo il primo e forse l’unico quotidiano on line italiano riservato agli abbonati. Questa è una testata che mi ricorda un po’ Il Foglio, perché ci sono all’interno tante culture diverse, luoghi di provenienza diversi, mondi diversi e noi cerchiamo il modo per farli stare tutti insieme. Non so dirti quale possa essere la nostra collocazione politico culturale, ci spostiamo da una parte all’altra, in base ai temi e ai nostri convincimenti. Penso che il direttore di un quotidiano non debba essere un dittatore ma un primus inter pares quindi non rinuncio alle mie convinzioni, ma spesso prevale lo spirito della redazione rispetto al mio. Ti faccio un esempio, al DDL Zan io sono contrario, e l’ho scritto anche su Huffpost, perché lo trovo un escamotage propagandistico per non affrontare i veri problemi, la drammatica assenza di un’equiparazione vera del matrimonio omosessuale con il matrimonio classico, che preclude agli omosessuali di adottare, una discriminazione orrenda. Ma al di là che la mia idea possa essere giusta o sbagliata, il giornale, per come è costituita la redazione, i collaboratori, i blogger, che mi precedono nell’avventura dentro Huffpost, è stato più favorevole al DDL Zan, che non il contrario.
Nel nuovo modo di fare giornalismo, esiste un concetto di community sempre più in voga, esiste anche nell’Huffpost? Com’è composta?
Noi abbiamo una community che sta all’interno dei palazzi, non soltanto della politica, ma dell’imprenditoria, del terzo settore, la classe dirigente italiana legge Huffpost, i nostri lettori hanno un’età media abbastanza alta, gente informata che vuole continuare ad informarsi, non ha voglia di un’informazione sbracata, sensazionalistica, desidera una titolazione ironica, magari leggermente frizzante, ma senza effetti speciali e io ho cercato di proseguire su questa strada, tracciata inizialmente da Lucia Annunziata. Il nostro è un giornale che è molto nelle mie corde, ad esempio adesso sulla tragedia della Marmolada, (tieni presente che io odio la cronaca nera perché ormai è la trasformazione della vita e della morte in intrattenimento, dove magari i protagonisti non vogliono essere gli intrattenitori), abbiamo raccontato la vicenda sotto alcuni aspetti come il cambiamento del clima, il turismo in montagna ecc… senza raccontare in quanti pezzetti i corpi sono stati sminuzzati dalle lame di ghiaccio. Cerchiamo di raccontare le notizie del giorno, immediatamente approfondite, immediatamente interpretate, con questa libertà di stare a volte più a destra o più a sinistra, a seconda dei nostri convincimenti. Non amo i giornali che stanno a destra o a sinistra per partito preso, non è possibile che una qualunque testata, schierata a favore di un certo partito o di una coalizione, non scriva nemmeno una volta che lo stesso partito stia sbagliando o che riconosca interessanti alcune posizioni dei partiti opposti. Così ci si rivolge a una tifoseria, la si rinfocola, mentre penso che il giornale debba essere il protagonista del proprio mondo non di un’area di riferimento. Eugenio Scalfari con Repubblica voleva incidere sul mondo e ci è riuscito, questo vale anche per Montanelli. Se tu sei il direttore di un giornale, pensi che lo stesso possa incidere sul mondo per come lo vedi tu, non per come lo vede un partito.
Il 23 Giugno doveva essere chiuso in commissione affari costituzionali della Camera il provvedimento sullo Ius Scholae, poi saltato, qual è la tua posizione a riguardo?
Io sarei per lo IUS SOLI. Un figlio nato in Italia da genitori stranieri residenti nel nostro Paese deve essere italiano. Capisco che la cosa non sia semplice e possa creare dei problemi, ma la democrazia è compromesso, la democrazia è mediazione e si può discutere su qualsiasi tipo di mediazione. Va bene anche lo Ius Scholae. Vedo alcuni compagni di scuola dei miei figli che non sono italiani e mi sembra una cosa profondamente sbagliata dal punto di vista umano e sociale, perché alla fine stai dicendo a quei ragazzini che non sono uguali ai loro compagni. Immaginiamo un bambino che abbia completato il ciclo di studi per ottenere la licenza elementare e insieme al titolo di studio riceva la cittadinanza: si sentirà italiano, sarà orgoglioso di esserlo diventato, non una persona sradicata, un ospite, un cittadino straniero che può stare da noi, ma non è italiano solo perché questo lo si “deve guadagnare”, un concetto orrendo, noi non abbiamo nessun merito siamo stati solamente fortunati a essere nati e cresciuti in un mondo occidentale, libero e ricco. Sono assolutamente a favore dello Ius Scholae. Molti si oppongono perché ci si dispera per la scomparsa del mondo in cui siamo cresciuti. Quando noi nativi degli anni ’60 eravamo ragazzini, all’età di dieci-dodici anni sapevamo che il centro del mondo era il mondo occidentale, inteso come Europa e Stati Uniti, poi c’era la Russia e infine il terzo mondo, Cina compresa. Noi eravamo il cuore del mondo, tutto questo non esiste più, per motivi economici (grazie alla globalizzazione il PIL cresce in tutto il mondo) e per motivi demografici. Quindi il mondo ricco, bianco, per il quale ho grande rispetto, è un mondo che va marginalizzandosi, non fa più figli, noi siamo pochi e non siamo più centrali, penso che il mondo tra duecento anni non saprà più cos’è il suprematismo bianco, sarà un mondo completamente diverso, l’Italia avrà un altro tipo di cittadinanza, l’Europa anche e il mondo sarà andato avanti, così sarà, che ci piaccia o no. L’immigrazione naturalmente va governata, ma ci saranno persone italiane che studiano in Italia, vivono in Italia, delinquono in Italia e se succede un po’ di più è perché le migrazioni hanno sempre causato un aumento della criminalità, prima dell’avvenuta integrazione. Noi restiamo affezionati ad un mondo che è già morto, possiamo continuare a difenderlo, ma è inutile. La nostra è una società vecchia, anche dal punto di vista psicologico, è una società un po’ stanca, nessuno di noi ha più veramente “fame”, l’Italia del dopoguerra aveva voglia di rivalsa, aveva voglia di ripartire, di crescere, questa è una cosa che oggi è venuta meno. Una società cresce e prospera se ha “fame”, se ha voglia di riscatto, se ha voglia di farsi il culo (penso che nella vita bisogna farsi il culo e avere culo). Arriva qui gente che ha fame e ha voglia di rivalsa, arriva anche qualche mascalzone è vero, ma questo fa parte del mondo, della vita, se oggi abbiamo ancora un po’ di vitalità, è grazie agli immigrati, trattati male, schiavizzati, mal pagati, ma gente che ha ancora voglia di rivincita, per sé e per i figli. Se il nostro Paese ha un futuro è nell’immigrazione, senza immigrati questo Paese non avrà futuro e diventerà un grande ospizio.
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