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“L’inverno della lepre nera”: l’esordio di Angela Tognolini per Bompiani
Il romanzo racconta della relazione madre-figlia, unica per complessità e di una forma di amore deviato e violento. Una parentesi meditativa sulla durezza e sul conforto che la vita in montagna può regalare. La potenza salvifica che l’osservazione attenta degli animali, in questo caso la lepre nera può generare: ovvero che durante le fasi più buie della nostra esistenza, dove l’inverno paralizza con il suo gelo, occorre “annusare l’aria” per orientarsi verso il proprio cammino in cerca del tepore e della rinascita della primavera
“L’inverno della Lepre Nera”, il romanzo d’esordio scritto da Angela Tognolini ed edito da Bompiani (pag.320), è un libro che tratta di una relazione unica nella sua complessità: quella madre-figlia. E una forma d’amore deviata che presenta manifestazioni violente ed angoscianti, superabili solo attraverso una parentesi meditativa di ciò che ci circonda. Per esempio, accogliendo la durezza ma anche il conforto che la vita di montagna sa regalare, disponendosi in maniera attenta ad osservare la potenza salvifica e magica che ci donano gli animali, come la lepre nera che ci insegna, come anche durante le fasi più buie della nostra esistenza, quando l’inverno paralizza tutto con il suo gelo, occorra “annusare l’aria” per orientarsi nuovamente verso il proprio cammino alla ricerca del tepore e della rinascita della primavera.
La protagonista della storia è Nadia, una bambina di nove anni che fin da piccolissima ha ricevuto, abituandosi, solo silenzio da sua madre, fatto di costanti imposizioni e assenza totale di risposte. Di contro, un amore, quello di sua madre Rosa, dimostrato attraverso apprensioni ed angosce continue per la scuola, l’università, il futuro.
Nadia, pur essendo molto piccola, prova a decifrare tanta freddezza di sua madre, riconducendola al rapporto con il padre, di cui però, non serba molti ricordi. Appena trascorso il Natale, Rosa decide di portare Nadia in una baita di montagna presso una località sperduta, dallo zio Tone, dove la piccola può annotare su di un registro le caratteristiche degli animali che incontra, con i quali stringe una vera e propria amicizia, in grado di donarle sollievo e amore. Il paesaggio è fortemente innevato, pieno di alberi, di natura incontaminata, e Nadia si mette ad osservare e studiare anche gli alberi, per individuarne l’età, per esempio, imparando a contarne i cerchi concentrici. Di questi amici secolari e silenziosi, ne percepisce le lotte per restare ben saldi nelle loro radici, i periodi di stanca, il buio, lo scarseggiare del nutrimento. E così, Nadia, prova a paragonare sua madre Rosa, ad un abete capace di resistere a tanti, troppi, inverni della sua vita, senza quasi battere ciglio, anzi, irrigidendosi sempre di più.
Trascorrere i giorni in montagna, diviene bellissimo per la bambina, ascoltare le legende narrate dallo zio Tone, compresa quella sulla lepre nera: ovvero una creatura dai poteri magici, che corre intorno alla montagna ad ogni scoccare di solstizio, annunciano il cambio della stagione. Un racconto di Vita dove amore significa anche ombre, terribili, devastanti, sogni infranti ai piedi di un altare, abbandoni, dolore estremo, rabbia, rassegnazione, sconfitte, morte e rinascite: pure, cristalline, dissetanti, eterne perché consapevoli e piene. Una scalata a pieno regime, a mani nude e cuore aperto fianco a fianco di una madre e una figlia.
“… Può sembrare terribile che avessi avuto bisogno di un sogno e di un litigio per provarmi il sentimento verso mia figlia. Ma la verità è che quel sentimento, così come ogni altro sentimento, era rinato dentro di me solo da poco, dopo che per tanto tempo era scomparso, riarso come ogni traccia umida dentro alla terra secca dell’estate. E ora la montagna me l’aveva restituito, insieme a tutto il resto: lo sguardo, il respiro, la gamba e il cuore. Soprattutto il cuore.
Erano stati quei giorni in cui ero tornata lì dove tutto era cominciato a riaprire dentro di me il fiume della vita. Avevo dovuto fare ritorno alla partenza per ritrovare la traccia del sentiero. Avevo dovuto fare ritorno alla radice di quella che ero quando ero selvatica, incompresa e libera, prima di incontrare il mondo, prima di scendere in città, di conoscere Sabrina, di amare Valentino, di crescere Nadia. Era di questo che avevo bisogno: di ricordarmi com’era essere sola. Non sola come un’amante abbandonata o come una prigioniera che attende con il fiato sospeso che il carceriere apra la cella, ma sola come un picco, sola come la punta del coltello. Sola come una ragazzina che non ha nessuno e che di nessuno ha bisogno.
Era questo che mi serviva: ricordare cosa significava essere sola per poi ricordare come si faceva a essere insieme. Ed era questo che mi stava insegnando la montagna con la sua luce, il suo freddo, la sua distanza. E anche con il suo fuoco buono dentro alla casetta di Tone, e con Tone, con le fiabe e i rituali del bagno e della cena. La montagna mi stava dando la mattina e la sera. Il giorno e la notte, la fatica e il riposo, la sfida e il sogno. Quella era la mia ultima scalata. L’ultima prova per dimostrare a me stessa che potevo ancora essere quella di un tempo. E se non proprio quella di un tempo, potevo comunque essere altro rispetto alla donna inaridita e sfibrata che ero stata negli ultimi anni“.
Angela Tognolini è nata a Bologna nel 1990. Ha lavorato per anni con persone richiedenti asilo e vittime di tratta degli esseri umani. Da questa esperienza nel 2020 è nato il suo primo libro, Vicini Lontani (Il Castoro). Dopo aver vissuto a Londra e Lisbona, si è trasferita in un paesino sulle montagne trentine.
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