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Le Muse arruolate. I giornalisti d’area e il voto in Italia
Non sapremo mai quanti voti spostano gli intellettuali e quella categoria di intellettuali tutta speciale dei giornalisti d’area o sedicenti indipendenti sia della carta stampata che della televisione. Né sapremo in che rapporto stanno l’opinione pubblica e l’opinione pubblicata. Lascio volentieri l’analisi della questione agli specialisti. Il fenomeno però è rilevante e si presta a qualche considerazione estemporanea.
Per parte mia, senza alcun supporto scientifico, ritengo che l’intellettuale/giornalista sia molto influente nella nostra democrazia urlata e catodica. Può, lanciando parole d’ordine o slogan, immagini suggestive o ragionamenti, analisi o invettive, rendere davvero la propria opinione pubblicata o urlata l’ossatura dell’opinione pubblica. Stella e Rizzo, da posizioni salveminiane e democratiche, hanno denunciato i buchi neri del nostro ceto politico inventando l’etichetta “casta” che ha sommosso e catalizzato un universo politico latente. Travaglio e il suo clone in sedicesimo Scanzi, unitamente a Padellaro, Gomez & Co hanno tirato la volata al partito anticasta creando un sentimento di base in cui s’è rispecchiato e shakespirizzato il risentimento pantoclastico degli elettori. Santoro s’è sfilato all’ultimo momento dal coro, in preda a una resipiscenza che ha stupito egli stesso oltre che noi. Anche Mentana è stato colto da qualche trasalimento. Annunziata, Flores, Giannini, Formigli, più guardinghi e obliqui per loro particolari ragioni, hanno tentennato ma alla fine hanno ceduto al sentimento di rivolta contro il governo e il suo premier. D’Agostino non ha receduto un attimo dal dileggio anarcoide che lo contraddistingue. Altri esempi potrebbero addursi.
Nel mondo delle opinioni sia pubbliche che pubblicate non è lecito eccepire alcunché atteso che la nostra opinione è legittima quanto quella di chiunque altro. Qualche riflessione va fatta tuttavia. Per quel che mi è dato valutare l’influencer perde ogni credibilità ai miei occhi quando, a fianco o a sostegno del politico demagogo, minimizza la complessità del reale; disconosce i limiti oggettivi dell’azione pratica rispetto al vociare indistinto delle soluzioni pronte solo nella mente di chi le espone; non valuta o non rimarca come dovrebbe la difficoltà incontrata dalla politica amministrata rispetto alla politica declamata; ignora, nel discorso pubblico, la lotta impari della moneta buona dell’azione politica intrapresa e osteggiata contro la moneta palesemente falsa della fola seducente o dell’aperta menzogna. Inoltre, interviene pesantemente sulle coscienze quando si colloca su posizioni del tipo “generico esigente”, chiedendo “ben altro” o di più, senza mai dire “cosa” esattamente e soprattutto “come” arrivarci, ovvero fa smorfie e smorfiette di insoddisfazione o batte il piedino di fronte agli sforzi di chi tenta seriamente di modificare il reale; e infine confonde il quadro della verità quando non soppesa il fatto che di ogni problema vi sono soluzioni, semi-soluzioni (rabberciamenti), ma anche, onestamente, nessuna soluzione, sia nel breve che nel lungo periodo.
Dicono che non è compito di un giornalista o di uno scrittore risolvere i problemi, ma solo di indicarli. Ma certamente: altri semina e altri raccoglie. Occorre subito rimarcare, allora, che molti giornalisti dell’Italia di oggi non sono bellamente impolitici come un Thomas Mann in esilio, ma politici a pieno titolo, immersi appassionatamente nell’agone come l’ultimo descamisado: orientano gli elettori, creano “un clima”, più e meglio dell’intellettuale engagé di una volta (che viene prontamente stigmatizzato quando si manifesta a sinistra, mentre quando appare a destra è indicato come un “amico del popolo”) e si pongono come ispiratori e fiancheggiatori di furiosi movimenti che tutto vogliono distruggere. Per tutti questi giornalisti si addice quanto meno la vecchia denominazione di “Muse arruolate”: non sono solo ispiratori alati delle masse in rivolta, ma opliti a pieno titolo, seppur camuffati obliquamente da opinionisti indipendenti.
Jean Améry diceva che compito dell’intellettuale è quello di un avertisseur d’incendie, avvertire che in lontananza c’è un incendio. Beninteso la sentinella non è il pompiere. Il pompiere dovrebbe essere il ceto politico, sperabilmente di professione e ben retribuito, non certo composto da principianti assoluti come quelli che ci sfilano davanti. E una volta che il pompiere interviene se non proprio avere “simpatia” per la sua azione, mi pare il minimo indicarne lo sforzo dispiegato dall’ “istinto delle combinazioni” rispetto alla “persistenza degli aggregati”, se si è davvero “amici del popolo”; magari limitandosi ad una neutralità attiva e operante, sforzandosi di interpretare il ruolo degli oppositori quando si ha un governativo davanti, e quello della ragione dei governativi quando imperversano gli oppositori, assumendosi l’incarico, anche, di calmare il Bertoldo dalle vene gonfie del collo o non fargliele schiattare del tutto, non aizzarlo a fare la faccia feroce in favore di pubblico per strappare l’applauso televisivo, ma invitarlo a comprende le modalità e i tempi di soluzione dei problemi, indicandogli le vere cause e responsabilità, che come sempre, si scoprirà, vengono da lontano, non dal governo di ieri né di ieri l’altro, e sono maledettamente intrecciate come le teste d’aglio, a “gliuommero”, direbbe Gadda. Ma soprattutto evitando (ma questa è una richiesta personalissima di chi detesta ridere su tutto) i cachinni, le vignette satiriche, i lazzi dei comici da parata, il sensazionalismo e lo spettacolo, come è richiesto da una materia grave e dolente qual è una crisi economica devastante. Ci si ricordi poi, relativamente ai comici, che nella nostra tradizione della Commedia dell’Arte, dopo i lazzi e i frizzi, Arlecchino tira fuori dalla cintura lo sfollagente, lo fa roteare nel vuoto e lo scarica furiosamente sui dorsi dei primi venuti. C’è infatti in fondo al nostro comico tradizionale una propensione alla sopraffazione fisica, a impugnare il randello. Ridere e aver paura a un tempo è tutt’uno in certi cuori come il mio.
Per restare nella metafora di Améry, a noi è toccato invece assistere al triste show di giornalisti che l’incendio sociale lo hanno propalato, soffiando sul fuoco delle esasperazioni popolari, non “rappresentandolo” en artiste, tenendolo cioè distante o di fronte a sé, ma immergendocisi dentro a capo fitto, passionalmente se assistiti dalle migliori intenzioni, o, al peggio, con i retropensieri dei tornaconti personali. Qualcuno questo incendio sociale lo ha addirittura interpretato nei teatri o nei palcoscenici televisivi della nostra informazione all’Ambra Jovinelli, con ingaggi di mediatori professionali (vere e proprie agenzie che piazzano gli opinionisti di giro nei programmi televisivi) o di impresari teatrali, e con cospicui ritorni di cassetta.
È questo il momento tragico e farsesco finale, quello del “grottesco triste”, quello in cui il comico giunto all’estremo non fa ridere più, quando l’ultima scenetta che ci passa davanti è quella del giornalista “amico del popolo” che si inzuppa il biscottino nelle lacrime di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
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