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Le multinazionali, i nostri «Roberto Carlino» del nuovo giornalismo

7 Aprile 2017

Lo diciamo subito, in modo che il comunicatore si può mettere allegramente il cuore in pace: egli non è un giornalista. Anche se iscritto all’ordine, anche se con i bollini a posto regolarmente pagati, anche se ha lasciato il suo posto in un giornale un minuto prima. Il minuto successivo è già un’altra cosa, un altro professionista, fa altro mestiere che non ha nulla (nulla) a che vedere con il mestiere del giornalista. Di più: in una società mediamente organizzata e civile, se iscritto all’ordine dovrebbe serenamente autosospendersi. O essere sospeso automaticamente. Se ci pensate, è un fatto molto strano: invece che opporre l’orgoglio del comunicatore, ruolo appena conquistato, vorrebbe mantenere a tutti i costi la frusta armatura del cronista che batte il marciapiede,  come se quella dimensione contenesse ancora qualcosa di un cicinin più nobile che portare semplicemente la parola d’altri, di un’azienda, di un soggetto politico, di qualcuno insomma che non siamo più (solo) noi con le nostre idee. Portare la croce per altri è una fatica certamente dannata e meritevole di stipendi superiori alle paghe dei giornali che sono quello che sono. Portare la voce di altri, mediata dalla propria sensibilità, è operazione finissima che dovrebbe avere luminosamente la sua casella di appartenenza, senza il mischione indistinto con mestieri totalmente diversi, se non opposti. La disperata volontà del comunicatore di considerarsi comunque un giornalista è degna di un trattatello psicanalitico.

Mentre eravamo evidentemente distratti, in questi anni recenti i comunicatori hanno lavorato sottotraccia, organizzando una controffensiva maligna e sottile. Si sono detti: con il giornalismo ai suoi minimi storici di considerazione è il momento giusto per sferrare l’attacco finale, per azzerare le differenze, per sovrapporre un mestiere all’altro. Per renderli entrambi indistinti, per sfalsare i piani, per confondere gli utenti, perché da ora li chiameremo tutti utenti e non più semplici, modesti, noiosissimi lettori di giornali. Essere tutti utenti e non più lettori è la sintesi massima della felicità aziendale. Perché – hanno pensato – da questo momento, le notizie le potremo dare (anche) noi. O solo noi. Per giustificare questo epocale cambio di prospettiva ci voleva però un incidente della storia. Un incidente planetario che tutto ricomprendesse. E onestamente non c’è sfondone giornalistico, anche il più planetario, che potesse consentire una simile rivoluzione. Ci voleva una condizione umana. Ci voleva la creazione di uno «smarrimento» collettivo. Era necessario che la terra tremasse sotto i piedi di chiunque di noi abbia ancora qualche minima certezza. E quel momento è arrivato proprio attraverso la Rete, non certo per le redazioni dei giornali, approfittando di un tormento planetario che ha gettato e getta il mondo nella più completa instabilità sociale. Sono comparse parole come post-verità, hanno fatto capolino le famigerate “fake news”, sistemi paralleli per veicolare indirizzi diversi dalla realtà, per inquinare gli equilibri raggiunti, per scatenare conflitti. Senza pensare che molto, troppo, di questo fenomeno faceva già parte della storia del giornalismo, ogni Paese con le sue responsabilità, noi italiani particolarmente responsabili. La Rete è stata in realtà uno straordinario diversivo, una copertura, applicandosi all’informazione con più impegno e dedizione, lorsignori avrebbero trovato molto prima le risposte che cercavano. Ma che evidentemente non avevano nessuna intenzione di trovare. Perché l’obiettivo era un altro.

E adesso l’obiettivo è finalmente chiaro e i giochi finalmente aperti. Ci si impiantano addirittura convegni e un paio, organizzati da Eni, hanno la nobilissima accoglienza del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Ve ne diamo i titoli, giacchè illuminanti: «Aziende o media. Da chi si informano i lettori?», al quale ha partecipato da coordinatore il fondatore e direttore di Stati Generali, Jacopo Tondelli. Poi l’altro: «Brand journalism: informazione o marchetta?».

Se non fossero sostanzialmente comici, due titoli atroci. Un tempo, ma neanche un tempo così lontano, due propostine di questo tipo avrebbero prodotto, al minimo, un generoso “ma vai a cagare” e non è escluso che possa accadere anche oggi. Ma il fenomeno c’è e  dunque tocca discuterne. Segno che il comunicatore ha guadagnato porzioni di territorio e le ha mangiate ai giornalisti? Perché è di questa concorrenza che stiamo parlando. Stiamo parlando, cari lettori (continuiamo ostinatamente a chiamarvi così), di una faccenda del terzo tipo che si può riassumere così: visto che l’onorabilità del giornalismo sarebbe sotto le scarpe, le nostre vecchie, care, multinazionali si fanno sotto e si propongono come produttrici di notizie buone, attendibili, verificate. Sì, avete capito bene. Le aziende si sostituiscono ai mezzi di informazione. Ma attenzione, il lavoretto sarebbe ancora più pulito. Le aziende non si propongono come agente primario di questo cambiamento, ma mettono naturalmente in carico al lettore la responsabilità del rovesciamento di prospettiva, sarebbe proprio lui che sfibrato da tanta incertezza, da notizie che non lo erano (cit. Sofri), dall’insicurezza editoriale che ci circonda, che a questo punto abbandona i media tradizionali e per saperne di più sul processo alimentare e le sue eventuali conseguenze, giusto per fare esempio, bussa alla porta della Nestlè e chiede di essere illuminato. Ed è qui, quasi come la carezza del papa, che le grandi braccia solidali delle multinazionali accolgono il povero lettore smarrito ricostruendogli le certezze perdute. Vieni figliolo, vieni.

Resta solo da capire se questi nostri comunicatori ci sono o ci fanno. Se ci credono davvero a questa bubbola di una vera concorrenza editoriale. Qualcuno ci ha già scritto un libro: «Professione Brand Reporter», sottotitolo: «Brand Journalism e nuovo storytelling nell’era digitale». A chi scrive, una vera concorrenza piacerebbe molto, comportando rischi esclusivamente professionali. I rischi di andare a sbattere per un comunicatore sono molto, molto, alti. Dare una notizia non è così semplice. Intanto bisogna trovarla, una notizia. E di cercatori bravi non ce ne sono molti. Poi bisogna saperla scrivere, perché la scrittura resta ancora un valore. E il comunicatore generalmente sa scrivere in un italiano corretto, non in un buon italiano. Si assumono giornalisti proprio per questo, sperando di cambiare verso e tono alla narrazione, ma la maledizione dell’arido comunicatore si abbatte anche sul migliore dei giornalisti.

Occhio dunque ragazzi, perché la competizione è dura e sulla media-lunga distanza potrebbe avere riflessi controproducenti per le aziende che rappresentate. Fatelo presente ai piani alti, sussurrate che questa cosa che “le notizie ve le diamo noi” è un filo pretenziosa. E anche pericolosa. Noi, comunque, per il momento vogliamo credervi sulla parola. Siete i nostri «Roberto Carlino» della notizia, in un mondo così friabile le solide realtà sono quelle che mancano.

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