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Le bufale online: alcune considerazioni tecniche
Durante il periodo delle feste natalizie non c’è dubbio che il tema su cui si è concentrato il dibattito pubblico, digitale e non, ha riguardato le cosiddette “fake news“.
Al di là di ogni considerazione di carattere politico e sociale, è interessante notare come si tratti di un problema che ha già riguardato negli anni passati Google, in particolare per quanto riguarda l’opportunità che si era riscontrata di penalizzare i siti che si limitavano a fare spam di contenuti non originali pubblicati da terze parti: Google risolse (o arginò) la questione modificando il proprio algoritmo grazie all’introduzione di “Panda“, una modifica del proprio algoritmo tale da premiare i siti che, per primi, avevano messo online il testo e godevano, grazie alla quantità ed alla qualità dei link in entrata (“link popularity”), di maggior autorevolezza.
Allo stesso modo, Facebook è nel passato ricorsa ad interventi di carattere tecnico per penalizzare un post protagonista di un’attività di click-baiting grazie al calcolo del tasso di rimbalzo e del tempo speso sul sito di destinazione: l’algoritmo del social network attribuisce infatti visibilità ad un contenuto sulla base di numerosi criteri fra cui il “bounce back” o tasso di rimbalzo.
È evidente però che, soprattutto di fronte ad organizzazioni che vivono di traffico e pubblicità online, non siano sufficienti questi rimedi: le piattaforme introducono cambiamenti per preservare e migliorare il proprio prodotto ed immediati sono i tentativi per aggirarli. La storia di Google è una continua rincorsa fra guardie e ladri.
È giusto quindi che l’attenzione si sposti sugli utenti affinchè giudichino la qualità di un contenuto non solo sulla base del loro comportamento (tasso di rimbalzo, link, …), ma anche sulla base del fact-checking secondo la via che sta seguendo Facebook.
Purtroppo sappiamo però che occorrono pochi minuti per condividere una bufala, ore per controllarla, controargomentarla e diffondere le pezze giustificative a supporto.
Se queste considerazioni avrebbero potuto essere fatte secoli prima dei social media, da quando i mezzi di comunicazione sono nati ed hanno rappresentato uno strumento di potere, informazione e contro-informazione, è però vero che noi viviamo questo tempo, un tempo di diffidenza nei confronti dei media tradizionali e di ricorso al Web come ambiente di condivisione di informazione fra pari: se la “videocrazia” agiva all’interno di un contesto, quello televisivo, che veniva percepito come altro rispetto alla nostra vita, le fake news intervengono all’interno di cerchie di amici, nell’ambito di un mezzo ancora ritenuto “terzo” rispetto agli interessi dei media. È un problema più profondo e sottile che richiede soluzioni di carattere tecnico, culturale e sociale.
Ogni soluzione di carattere legislativo – ad esempio il contrasto all’anonimato – può essere facilmente aggirato e ledere invece lo spirito autenticamente libertario di Internet senza di fatto impedire alle organizzazioni che si fondano su un uso strumentale delle piattaforme digitali di prosperare e inquinare la loro essenza stessa di ambienti di informazione e condivisione.
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