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L’abito non fa il monaco, ma la moda fa politica

24 Settembre 2015

di Giulia Rossi

Oggi in politica trionfa l’informale sofisticato, anche grazie alla rappresentazione sui social network. Un dress code, un codice di abbigliamento fluido, variabile, informal. A differenza del passato, in cui si cercavano simboli che dimostrassero l’appartenenza di classe (o di partito), oggi è la tendenza all’individualizzazione a prevalere, quindi alla personalizzazione, soprattutto nel campo dell’abbigliamento femminile che permette maggior libertà di manovra. Storicamente l’uniforme dà corpo all’istituzione, tra-vestendola, creando un codice condiviso che delimita chi è in e chi è out. In quest’epoca di apparente apertura la direzione presa sembra contraria.

Possiamo così osservare un utilizzo massiccio dei colori che in passato non avveniva: da Maria Elena Boschi in azzurro per Otto e mezzo nella prima serata de La7 condotta da Lilli Gruber (ma non dimentichiamo il tailleur blu elettrico della cerimonia di insediamento del governo) alla first lady Agnese Renzi, mediamente elegante, ma mai too much, in tubino rosso acceso per la visita di Angela Merkel ad Expo. Si potrebbe fare una distinzione tra chi fa politica in prima persona e chi invece accompagna un marito che fa politica ed è interessata da queste osservazioni di rimando, ma le conclusioni sarebbero affini: l’avanzare del casual, dell’informale e della personalizzazione si notano comunque. Il discorso del colore poi abbatte ogni confine, anche di età, sulla scorta di una maggiore valorizzazione, fisica e d’immagine, del singolo individuo. L’esponente PD Alessandra Moretti aveva addirittura coniato, per le donne “renziane”, il termine ladylike, sottolineando: “dobbiamo e vogliamo essere belle, brave, intelligenti e eleganti”. Ma non ha avuto molta fortuna ed è rientrata nei ranghi, anche dal punto di vista di un abbigliamento che non si fa troppo notare.

L’uniformità dell’abbigliamento maschile tenderebbe a resistere con giacche e cravatte d’ordinanza, ma anche qui le eccezioni sempre più ripetute oltre che confermare diventano la regola stessa. Dalla foto in camicia bianca del settembre 2014, sul palco della Festa de L’Unità di Bologna, del premier Matteo Renzi con i leader socialisti europei (con la manica arrotolata, di blairiana memoria) ai look dell’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, per non parlare delle magliette local del leader della Lega Matteo Salvini (Milano, Madonna di Campiglio, eccetera), sono visibili evidenti cedimenti. D’altro canto, un leader che nella semiotica dei suoi discorsi ha più a che fare con la sostanza, e invece sfoggia un look che è stato capace di far tendenza, è il leader dei metalmeccanici Maurizio Landini, che passa con disinvoltura dalla felpa Fiom (divenuta non senza polemiche oggetto di “merchandising”) alla camicia jeans con cavallino Polo Ralph Lauren indossata durante la trasmissione condotta dalla Gruber lo scorso 9 settembre. D’altra parte, se c’è chi ha sottolineato il lato aleatorio della moda, definendola “una sorta di capriccio” (Sapir), c’è anche chi invece, a ragione, parla di moda come espressione di un atteggiamento di competitività (Squicciarino) e in quanto tale fenomeno socialmente rilevante.

Difficile oggi riconoscere un vero eccentrico, originale, in un mondo di schegge impazzite dove qualsiasi moda fatica ad affermarsi. I modelli esistono ancora, ma tendono sempre più a sfaldarsi, rendendo sempre più difficile tradirli e quindi rompere le aspettative vestimentarie della società in cui si vive. L’economista Schumpeter, che fin da studente aveva espresso l’irrefrenabile impulso a combattere la borghesia, era solito, con grande scandalo dei suoi colleghi, andare al consiglio di facoltà avendo ai piedi gli stivali da caccia, ma indossava sempre il frac per sedersi a tavola anche se era solo a casa.

Dopo gli eccessi degli anni ’80 (il power dressing adottato dalle donne come affermazione in un mondo del lavoro prettamente maschile, esemplificato da tailleur molto squadrati dalle linee dure, rigide) ed il materialismo dei ’90, il nuovo secolo si è aperto con l’affermazione, almeno apparente, della “No logo” philosophy di Naomi Klein e di un ripetersi costante del refrain “l’abito non fa il monaco”, spesso utilizzato come slogan garante di una valorizzazione dei contenuti a scapito delle forme.

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di andare oltre la superficie, grazie a Herbert Blumer e all’interazionismo simbolico. Il sociologo William Thomas nel suo teorema di spiegazione della situazione, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, afferma: “ciò che gli uomini immaginano come reale è reale nelle sue conseguenze”, come dire: “l’abito non fa il monaco, ma se vedo venirmi incontro una persona vestita da monaco, mi comporterò come se davanti avessi un monaco”. Attenzione quindi: dichiararsi estranei alla moda, disinteressarsene o non riconoscere certe forme di comunicazione sociale rischia di rendere la nostra cassetta degli attrezzi priva di importanti lenti di lettura. Potenzialmente la carica semiotica di un abito è alta, d’altra parte “siamo l’unica creatura che cambia intenzionalmente il proprio aspetto. Il leopardo non può cambiare le proprie macchie e mentre il camaleonte può mutare colore non si chiede però ogni mattina: di che colore vorrei essere oggi”.
(Ted Polhemus, Sampling & Mixing, in AA.VV., Moda: regole e rappresentazioni, a cura di Giulia Ceriani e Roberto Grandi, Angeli, Milano, 1995, 2a ed p.109)

www.giuliarossi.it

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