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La prima del Manifesto su Marchionne, e quel che resta dei giornali-chiesa
Circola da qualche ora accompagnata da commenti indignati. È la prima pagina de Il Manifesto in edicola oggi, dedicata alla fine della parabola umana e manageriale di Sergio Marchionne, corredata da un duro editoriale, che sostanzialmente non lascia spazi ai dubbi, firmato da Marco Revelli in cui “il manager di un’era che non esiste più” è raccontato come l’uomo che ha desertificato l’Italia industriale portando via la Fiat.
Mi pare che l’indignazione per il titolo del Manifesto sia eguale e contraria (e egualmente poco comprensibile) all’indignazione di chi ha condannato il cinismo di Elkann e dei vertici di Fca che, in gran fretta, han dovuto procedere alla sostituzione di Marchionne e al rinnovo del consiglio di amministrazione, sostituendo il manager italiano con Mike Manley, capo di Jeep e ora dell’intera azienda. Sono indignazioni poco fondate: perché il mercato ha le sue regole e non le scopriamo oggi, e non era pensabile una vacatio ai vertici di una grande azienda, da un lato, e perché dall’altro la prima del Manifesto è dura ma non pare irrispettosa delle condizioni di salute di Marchionne. Sopratutto, è del tutto coerente con la visione che il Manifesto da anni ha dell’azione della Fiat di Marchionne. Una Fiat sempre meno italiana, con sempre meno lavoratori in Italia, una Fiat che non ha potuto mantenere la promessa di Fabbrica Italia, e che di fatto si rivelò un bluff da quasi subito.
Quel che però lascia perplessi, nel guardare alla ricostruzione della prima pagina del quotidiano comunista, è l’assoluta mancanza di ricostruzione del contesto in cui la vicenda Fiat/Marchionne avviene. Abituata da decenni al mercato protetto e auna valanga di aiuti di stato, Fiat si trova di colpo esposta al mercato. Eredita una serie lunghissima di errori, pigrizie, fallimenti. La politica non può più aiutare nessuno, che ormai l’Europa vigila. I concorrenti si sono moltiplicati, e corrono. Marchionne salva il salvabile, e lo fa seguendo la mission di ogni buon manager: massimizzare il bene dei suoi danti causa, cioè gli azionisti.
Di tutto questo nella prima Manifesto di oggi non c’è traccia, mentre è significativo che a restituire una maggior complessità, pur all’interno di un giudizio ovviamente critico, sia un duro del sindacato come Giorgio Airaudo, in una bella intervista pubblicata a pagina tre. Ma veniamo al punto – il Manifesto è un giornale-chiesa, come molti altri abituato a dover continuare a sopravvivere in un mercato sempre più piccolo e difficile, che conta sulla fidelizzazione dei propri lettori. Chi se la sentirebbe, al Manifesto, di disturbare le certezze dei lettori che ogni giorno ancora versono il loro importantissimo obolo, rischiando magari di perderli? Come si può restituire un Marchionne in chiaroscuro, se chi ti legge lo vuole tutto scuro?
I giornali-chiesa, già. Non è un caso che un giornale della chiesa opposta – Libero – che tante volte ha suscitato l’indignazione di tanti, definisce “agghiacciante” una prima pagina, quella del Manifesto, appunto, che agghiacciante non è. E del resto, il problema dei giornali-chiesa non riguarda certo solamente il “quotidiano comunista”, sopravvissuto a tutti i crolli del Novecento e a tutte le evidenze della storia. Se la sente il Fatto Quotidiano di disturbare il suo lettorato fedele allevato a pane e manette? Se la sentirebbe Repubblica di restituire un quadro men che mostruoso di Salvini? E Il Foglio di riconoscere una buona azione a un grillino? L’elenco potrebbe continuare a lungo. Attenzione, non è mia volontà quella di criticare o men che mai irridire il lavoro dei giornalisti, ma quella di discrevere, invece, gli angusti spazi di mercato in cui questo lavoro oggi si può svolgere. Con i pochi che comprano giornali che sembrano, sempre di più cercare uno specchio per la propria identità, invece che un’informazione vera e oggettiva, con tutti i dubbi che essa comporta.
Ed è insomma per questo che di giornali-chiesa sono piene le edicole. Che poi le edicole siano sempre meno, e sempre più vuote, è (forse) un altro discorso.
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