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La pornografia del dolore
Dopo la morte dei due giornalisti in Virginia e la morte di altri migranti nel Canale di Sicilia e su un camion in Austria, si è ripresentato il dilemma se pubblicare o meno certi contenuti. Ce lo si è chiesto in relazione al video girato in prima persona dall’assassino dei due giornalisti, un loro ex collega, che ha ripreso tutto col suo telefono e ha successivamente pubblicato i video sui suoi profili Facebook e Twitter. Ce lo si è chiesti anche in relazione alle terribili immagini di quei bambini morti annegati portati sulla riva, e a quelle delle persone morte asfissiate in un camion abbandonato lungo un’autostrada austriaca. Perché pubblicare certi contenuti? Quale scopo si vuole raggiungere pubblicandoli? Cosa possono aggiungere ai fatti che raccontano questi contenuti?
È un dibattito che continua a ripresentarsi sempre uguale in occasioni simili. Accadde anche quando venne bombardata l’ambasciata americana a Benghazi, quando tanti pubblicarono le foto del cadavere dell’ambasciatore americano morto per “testimoniare la barbarie di questo attacco”. Anche in questa occasione si sono usate motivazioni simili per la pubblicazione, addirittura c’è pure chi chiede anche più dolore, “Dovete farci più male, dovete schiantarci il cuore e la coscienza”. Ma in tutti questi anni di immagini raccapriccianti, di dolore portato a livelli altissimi, di coscienze frantumate (provvisoriamente) davanti a certi contenuti, cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo modificato l’odio che circola, abbiamo toccato quelle anime che diciamo di voler sensibilizzare? Basta guardarsi un attimo intorno per capire che come strategia è stata decisamente fallimentare.
Pubblicare la foto di un bimbo annegato serve a comprendere meglio i fatti e a sensibilizzare sul problema dei migranti o è utile soltanto per fare un po’ di spettacolo? Cosa aggiunge al dramma già ampiamente conosciuto di donne, bambini, uomini, anziani che con straziante regolarità muoiono nel tentativo di scappare da un paese in guerra o da una condizione di povertà o di oppressione? Molti hanno spiegato la necessità di pubblicare le foto dei migranti morti facendo un parallelo con l’Olocausto o con le foto del cadavere di Stefano Cucchi, ma anche qui temo si faccia una terribile confusione. In entrambi i casi c’era la necessità di testimoniare fatti che erano completamente sconosciuti alle persone, fatti completamente ignorati, fatti di cui le persone comuni non sospettavano neanche l’esistenza. E per l’Olocausto non è un mistero se le foto più rappresentative non siano quelle dei corpi devastati nelle fosse comuni o di quelli carbonizzati, ma piuttosto quelle delle persone vive ridotte pelle e ossa nei campi di concentramento. E sono enormemente più d’impatto non per la condizione dei loro corpi, ma per il loro sguardo. Osservateli bene: non vi sentirete in colpa per i segni delle sevizie e delle privazioni sul loro corpo, vi sentirete in colpa per quegli sguardi vuoti, come assenti, spenti, impauriti. Leggervi il terrore di guardare una persona che semplicemente scattava loro una fotografia.
La domanda da porsi continua a restare li, intonsa: pubblicare certi contenuti aggiunge qualcosa? E no, affermare che aggiunge dolore non è una risposta, perché come detto queste terapie del dolore si ripetono ad ogni tragedia simile lasciandosi dietro una scia che non insegna nulla. Abbiamo forse ottenuto un grosso sdegno immediato dell’opinione pubblica, qualche iniziativa lanciata d’urgenza e poi più nulla. Alcuni addirittura si sono spinti a dirmi che “Anche Gesù Cristo sulla croce è un cadavere ma è in tutte le classi”, un esempio peggiore pure dei precedenti se possibile: confondere certi contenuti con un simbolo che si porta dietro molti significati, non solo la rappresentazione di un semplice cadavere, credo sia una questione da non prendere sul serio. È diritto d’informazione ripetono molti, è solo un macabro voyeurismo per il mio punto di vista.
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