Media

Instagram al tramonto

12 Aprile 2021

Non possiamo smettere di interrogarci sui social network che quotidianamente utilizziamo perché, lo sappiano bene, la prima forma di tutela dagli stessi e la possibilità di perseguire un loro uso proprio deve partire, prima di tutto, dalla nostra conoscenza, base indispensabile per la formazione di un pensiero critico che dall’eterodirezione ci conduca verso forme sempre più consapevoli di autodirezione.

Un passo verso questo traguardo proviamo a farlo attraverso questo dialogo con Paolo Landi, a partire dal suo Instagram al tramonto (La Nave di Teseo 2019).

 

 

Nella premessa, con la quale si apre il tuo Instagram al tramonto (La nave di Teseo 2019), tu elenchi, con poche e chiare parole, quello che molti saggi e manuali faticano a esporre con altrettanta nitidezza e cioè le caratteristiche strutturali di un social network come quello in oggetto: un ritorno generalizzato al protagonismo infantile; un’affermazione della propria esistenza strettamente correlata alle nuove dinamiche di prossimità e distanza; logiche economiche sottese a tutte le funzionalità della piattaforma. E concludi scrivendo: «Non c’è niente di meglio di Instagram per fotografare questo momento pioneristico, in cui una generazione di ignoranti digitali si avvicina piena di complessi alla modernità tecnologica, mentre una generazione di nativi digitali la sfrutta nel modo più antico, per fare soldi».

Rispetto a queste tematiche cruciali, quale ritieni sia il livello di consapevolezza degli utenti che utilizzano Instagram? Quali strade si potrebbero battere per provare a fare aumentare il livello di conoscenza di questo medium tra coloro che lo usano come fossero costantemente sotto effetto di narcotici?

A mio parere il livello di consapevolezza di chi usa Instagram è molto basso. Lo stesso social incoraggia un uso ludico dello stesso: si sta su IG per curiosare nelle vite degli altri e per mettere i like alle foto che ci piacciono, per controllare quelli che ci seguono e se mettono il cuoricino sotto ai nostri post. In questo modo le corporations proprietarie dei social possono continuare indisturbate a fare profitti controllando sempre di più le nostre vite. È ormai cosa nota che, se possiamo usufruire gratuitamente degli spazi per esprimerci che i social ci concedono, è perché le merci di scambio siamo noi, che ci vendiamo più o meno consapevolmente a Zuckerberg, cui consegniamo informazioni preziose sui nostri stili di vita, consumi, gusti, perfino emozioni. Le corporations proprietarie dei social ci inseriscono in data base e ci vendono alle aziende che, come la nostra esperienza quotidiana ormai prova, ci contattano sugli smartphone offrendoci ogni minuto merci da acquistare. È una forma molto sofisticata di marketing, mai esistita prima, il marketing one-to-one, reso possibile proprio dalla nostra interazione con Instagram, Facebook, Twitter, Tik Tok. Ma, vorrei dire, non solo dai social: anche Netflix sa tutto di noi, attraverso i film che scegliamo questo distributore compone il profilo psicologico di ogni abbonato e può continuare a proporgli film “in linea” con i suoi gusti, oltre a merci coerenti con la vita che si immagina conduca uno che sceglie quel determinato tipo di serie tv o di film. Sapere che questo accade è il primo passo per un uso consapevole di questi media, perché non è scontato. Molte persone leggono un giornale, tutt’ora, senza preoccuparsi di chi sia l’editore di quel giornale, oppure guardano la tv senza preoccuparsi di chi ne sia il proprietario. Eppure la stampa, la tv, i media in generale hanno il potere di orientare l’opinione pubblica e quindi le scelte politiche di un Paese. Ma, anche oggi, nessuno pare preoccuparsi che dietro ai social esistano poteri economici e politici, nessuno riflette che la democrazia che i social sembrano concedere e amplificare, possa essere invece una forma di controllo. Bisognerebbe partire da qui, per attuare una “resistenza” ai social che, senza alienarci da essi perché alla fine sono forme di comunicazione intelligenti e necessarie, eviti “l’effetto narcotico”, come tu dici nella domanda, e ci trasformi in social-addicted, un vero pericolo oggi, purtroppo.

Nel tuo testo, procedi ad un’analisi di Instagram commentando le parti che lo compongono e mostrando come alcuni dei temi da sempre correlati all’esistenza umana vengono affrontati tra le pagine di questo social network. Ho pensato tu abbia volutamente scelto di riprodurre, anche nella struttura del tuo saggio, quella frammentarietà che definisce Instagram e verso cui gli utenti sono condotti: non a caso, il primo macro tema del quale tu ti occupi è proprio quello del “mosaico”, magnificamente rappresentato dai sedici screenshot di Olivero Toscani che impreziosiscono la pubblicazione.

Ci spieghi esattamente cos’è e quali sono gli effetti di questa spaccatura in schegge del reale sulla percezione del reale stesso da parte degli utenti?

Il “feed”, il mosaico di immagini attraverso il quale noi “nutriamo” i nostri profili su Instagram è perfettamente funzionale all’uso ludico di cui parlavo prima. Tutto sembra fondamentale nell’attimo in cui posti la tua immagine e niente sembra davvero avere importanza, perché basta postarne una subito dopo che quella di prima “sparisce” pur restando visibile, diventa vecchia, nessuno la guarda più. Il tema dell’obsolescenza nei social rimanda alle nostre vite, sempre più frammentate e sempre più mercificate. Definiamo la nostra identità attraverso le merci che acquistiamo e l’ansia di novità domina le nostre solitudini. Proprio perché i social ci relegano in spazi di condivisione solo virtuale, è come se avessimo una fame bulimica di nuovi “amici”, nuove immagini, nuove cose da comprare per poterle mostrare, perfino nuove emozioni da provare per poterle condividere. La realtà trasformata in frammenti di vita sembra più facile, Instagram dà l’illusione di abolire qualunque complessità, tutto si rigenera.

Nella sezione dedicata al “cibo” tu scrivi: «Ovviamente se ci chiediamo come mai sentiamo il bisogno di postare su Instagram la foto del nostro sushi, ci risponderemo che lo facciamo per divertimento, per il piacere di condividere con gli altri qualcosa che ci piace, per svago, per abitudine: Instagram, infatti, genera forme di socialità che inibiscono qualsiasi forma di autocoscienza (se ci mettessimo davvero a riflettere, prima di postare il nostro sushi, sul perché lo facciamo, si finirebbe per non postarlo.».

Vuoi approfondire con noi il discorso relativo a questa autocoscienza inibita? È associabile alla condizione dell’homo videns, teorizzata anni fa da Giovanni Sartori in riferimento alla televisione, e che qui si esplica nella stessa modalità di video-bambino in balia dello stream e incapace di scegliere e decidere?

Instagram o della falsa coscienza. Che tipo di sincerità ci permettiamo di avere, prima di tutto con noi stessi, quando scegliamo una immagine da postare su Instagram? Fino a che punto siamo sinceri? In un’altra parte del libro dico che Instagram, proprio perché ha a che fare con la fotografia, ci spinge a mostrare di noi stessi il lato migliore. Quando ci fotografiamo cerchiamo di sorridere o di mostrare quello che crediamo sia il nostro profilo giusto, così su Instagram diamo sempre di noi un’immagine idealizzata, anche quando scegliamo di postare una nostra foto appena svegli. Il lavoro quotidiano che facciamo sui social è nient’altro che una sorta di psicoterapia per renderci accettabili, noi, con la nostra faccia e il nostro corpo e l’ambiente che ci circonda. Quello che dico sul sushi, si può applicare a qualunque immagine: qual è la “necessità” delle immagini che postiamo? Perché, nel momento in cui carichiamo il feed quell’immagine ci sembra indispensabile? Meglio non porci queste domande, no? Perché se approfondiamo troppo ci smontiamo e l’immagine finiamo per non metterla, perché non c’è alcuna necessità di postare un tramonto alle sei di pomeriggio e un cappuccino al mattino, se non quella di obbedire all’algoritmo: a quelle ore tutti pubblicano un tramonto e un cappuccino e il meccanismo imitativo con cui Instagram ci seduce fa il resto. Il gioco a cui Instagram ci invita non ha bisogno di troppa introspezione, più ci conformiamo più ci sentiamo accettati; più restiamo nel mainstream, più Instagram ci premia con più cuori e più follower.

In un bellissimo saggio del 2014, Lo specchio vuoto. Fotografia, identità e memoria (Edizioni Laterza), Ferdinando Scianna sostiene che non saranno più le fotografie a doverci assomigliare ma noi a dovere somigliare a loro. In effetti, pensando alle pratiche di body modification che, secondo diversi studi, dipartono in larga misura da fenomeni emulativi del materiale fotografico visto su Instagram, questa teoria è stata ampiamente verificata.

Quali sono secondo te i pericoli, per il corpo e per l’anima, di questa tendenza imitativa e, dunque, omologante?

Il conformismo omologante di Instagram non è più pericoloso di altre forme di conformismo. In questa esibizione della felicità a tutti i costi che caratterizza questo social c’è un presupposto ottimistico: se tutti mostrano quanto sono felici, realizzati, quanto è bello il resort dove sono in vacanza, quant’è buona la pizza che hanno appena ordinato, anche io mi adeguo. Una famiglia infelice, un bidone ricevuto da un bed and breakfast, una pizza mal riuscita non troveranno posto su Instagram che è un social molto borghese, che deve mostrare il meglio, e che perciò sembra innocuo. Dico sembra perché questo meccanismo imitativo crea frustrazione, ansia da prestazione e probabilmente, nei soggetti meno strutturati, invidia, rancore. Anche se gli haters preferiscono twitter e facebook per mirare ai loro bersagli, qualche distillato d’odio puro comincia anche a trovarsi su Instagram. C’è effettivamente un pericolo: quello di cercare di far somigliare le nostre vite alle foto che vediamo su Instagram farà della nostra esistenza una rincorsa a emulare chi ci sembra più in alto nella scala sociale, più ricco, più colto, più giovane, più bello, insomma migliore di noi. Sembrerebbe non esserci niente di male a cercare di migliorarci, ma dimentichiamo che tutta questa spinta aspirazionale si manifesta solo su Instagram: noi restiamo probabilmente chiusi in casa con lo smartphone in mano, la costruzione virtuale della nostra vita migliore avviene nella solitudine, la nostra “vita vera” rimane quella che è sempre stata. Quindi: scollamento tra il mondo virtuale dei social dove possiamo mentire senza troppe conseguenze e quello reale che non fa sconti, idealizzazione narcisistica contro realtà.

Un’ultima domanda. Instagram al tramonto prende in considerazione concetti come la religione, l’arte, la morte intorno ai quali, da sempre, si sono costruite le grandi narrazioni. Eppure, sappiamo bene, la nostra società occidentale contemporanea le ha piano piano svuotate di significato, sostituendole con micro narrazioni molto meno utopiche e, quindi, progettuali, ma illusoriamente “a portata di mano”, più facili da realizzare e da seguire.

In che modo, dal tuo punto di vista, la “logica del piccolo” ha preso piede dentro Instagram e qual è la deriva verso la quale questo tipo di accostamento al mondo sta generando?

La micro-quotidianità si presta molto bene ad essere raccontata su Instagram: le foto che funzionano di più sono gli scatti rubati al cane, a un fiore che sboccia, al sole che cala, a un camino acceso, ai nostri piedi fotografati in soggettiva mentre siamo sdraiati su un lettino in spiaggia con il mare davanti. Per questo i grandi temi, come la religione e la morte, vengono ridicolizzati su Instagram. La religione spinge spesso alla blasfemia e nei profili di Gesù Cristo, identificato col bollino blu di “personaggio pubblico”, le immagini vengo sbeffeggiate, parodiate. La morte viene sostanzialmente negata: i profili delle persone famose decedute vengono alimentati quotidianamente dagli uffici stampa, assicurando al defunto la vita eterna, almeno su Instagram. L’arte non riesce davvero a distinguersi nella marmellata di immagini tutte diverse ma alla fine tutte uguali. Instagram dà il suo meglio se viene utilizzato per informare o per vendere qualcosa, quando si tenta di trasformarlo in “narrazione” o peggio “arte” il kitsch è in agguato. Quello che prima era visto da un occhio intelligente – e in un contesto preciso – su Instagram lo vedono tutti e fuori contesto: il potere di questo social è quello di omologare volgarizzando la realtà e incoraggiando la coazione a ripetere. Il contrario, se ci pensiamo, dell’unicità, originalità e autorialità come fondamento di ogni espressione artistica.

 

Paolo Landi (Ph. Maki Galimberti)  è uno scrittore e un manager della comunicazione. Ha pubblicato vari libri sull’educazione dei minori all’uso consapevole dei media, da Einaudi, Bompiani, La Scuola; tra questi “Lo snobismo di massa” (1991), “Il cinismo di massa” (1994), “Manuale per l’allevamento del piccolo consumatore” (2000), “Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino” (2006), “Impigliati nella Rete” (2008), “La pubblicità non è una cosa da bambini” (2009). Il suo ultimo libro è “Instagram al tramonto”, La Nave di Teseo.
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