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In memoria di Gennaro De Stefano, giornalista scomodo

1 Maggio 2017

Oggi sono nove anni che se ne è andato. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato – il cancro non perdona, soprattutto se non preso in tempo – ma Gennaro De Stefano era una persona che non si dava per vinta. La sua ultima battaglia, lui che di battaglie ne aveva combattute tante con l’arma che gli era più congeniale, la penna, era durata alcuni anni. Sapeva che il nemico questa volta era diventato invincibile, essendosi insinuato nel suo corpo per riempirlo di metastasi, ma, fino a quando aveva potuto, aveva continuato a scrivere. Raccontando, e mostrando come il male lo aveva ridotto, la sua battaglia dalle pagine di Gente, l’unico settimanale che, per la prima volta (aveva 50 e passa anni) gli aveva fatto un contratto regolare, lui che per anni aveva vissuto di collaborazioni.

Gennaro De Stefano era un cronista di razza, e nel suo caso il termine calza alla perfezione, non è una forzatura. Ed era un giornalista scomodo, come si è definito nella sua autobiografia che molti dovrebbero leggere. Per capire la persona e conoscere una storia che è passata con meno clamore di quello che avrebbe meritato.
Gennaro aveva origini napoletane ma viveva ad Avezzano, in Abruzzo. Collaboratore di punta dei settimanali Visto e Oggi, per il primo aveva seguito tutta la vicenda del cosiddetto Mostro di Balsorano, un povero pastore accusato di un brutale omicidio di minore. Gennaro non si accontentava delle versioni ufficiali e aveva cominciato a indagare, a mettere in rilievo le contraddizioni dell’inchiesta, il lavoro mal fatto dal commissariato di polizia di Avezzano. Aveva dato fastidio. Fu così che un giorno, dopo che era uscito dal tribunale dove si recava quasi quotidianamente a caccia di storie, fu affiancato da un’auto della polizia che lo fermò.

Gli perquisirono la macchina e, come per incanto, trovarono della droga. Fu arrestato e scontò anche alcuni mesi di carcere. Ma era innocente. La droga gliel’avevano messa in macchina i poliziotti, ai quali quel segugio di razza dava fastidio. Quella tremenda esperienza lo segnò per sempre e che uno dei figli, film-maker, ha ben ricostruito in un documentario mandato in onda da uno dei canali tematici della Rai. Fu solo quando ad Avezzano arrivò la nuova dirigente del commissariato che fu fatta luce e vennero inquisiti i poliziotti corrotti. Quella dirigente sarebbe poi diventata la terza moglie di Gennaro, la donna che gli è stata accanto durante la malattia.

I primi a non credere che Gennaro De Stefano fosse uno spacciatore e tantomeno un cocainomane furono i suoi colleghi di Visto, che gli fecero arrivare un telegramma con poche, ma chiarissime parole: “Non ci crediamo”.
Ho avuto la fortuna di conoscere Gennaro e di lavorarci insieme, imparando da lui molte cose. Ma una volta ho fatto l’errore di chiamarlo “Maestro” in un blog e lui mi redarguì: “Cancella quel coso, io non sono maestro manco di me stesso!”.

La prima volta che lo avevo incontrato era arrivato a Bari inviato da Oggi per un servizio sulla vendita di Antonio Cassano dal Bari alla Roma per una cifra record. Con lui e Paolo Altamura, il fotografo col quale avrei poi condiviso giornate intere di lavoro e col quale saremmo diventati amici fraterni, cominciammo la “caccia” a Cassano. Il genio di Bari vecchia era blindato dagli amici, era difficile avvicinarlo, per cui cominciammo i nostri giri, fino a scoprire la zona in cui il presidente del Bari Matarrese aveva dato una casa alla mamma del calciatore. La intercettammo per strada, il giorno dopo ci alzammo di mattina presto per andare a parlare col padre naturale del calciatore, addetto alla raccolta dei rifiuti nella zona del carcere di Bari. Riuscimmo a portare a casa il servizio (o meglio, Gennaro riuscì a portare a casa il servizio) e ricordo ancora lui al telefono che parlava con la segreteria di redazione dicendo che in coda all’articolo pretendeva anche il mio nome.

Quando Pino Aprile lasciò Oggi per passare a Gente, Gennaro lo seguì. Ogni tanto ci sentivamo via mail e una sera mi disse che era in Puglia per lavoro e mi diede appuntamento per una cena a base di pesce (lui lo adorava) a Bari vecchia. Mi disse per la prima volta della sua malattia, che allora non aveva ancora raggiunto l’aggressività che qualche anno dopo l’avrebbe ucciso. Cominciai così a collaborare con Gente, mandavo a Gennaro le proposte, lui le valutava. Senza sconti. Quando mi faceva i cazziatoni via mail per una proposta che non aveva senso, a me sembrava di sentire la sua voce, con il suo accento misto napoletano-abruzzese. Così come quando un attacco non lo convinceva: “Nelle prime cinque righe devi dire il fatto! Mo lo riscrivi.”.

Quando catturarono Provenzano, fui chiamato dal direttore Pino Aprile, che mi disse che sarei dovuto andare a Palermo con Gennaro. Andammo a Montagna dei cavalli, dove avevano scoperto il covo di Provenzano, poi a Corleone. Faceva caldissimo e facemmo, insieme al fotografo Fabrizio Villa, il giro del cimitero parlando col custode del camposanto che ci mostrava le tombe dei vari mafiosi (compresa quella di Luciano Liggio che è, in realtà, seppellito in quella di una parente, senza lapide che lo ricordi). Parlavamo con i nostri interlocutori, ma io guardavo Gennaro: era affaticato. Mi ritrovai a pensare e a invidiare la sua forza: una persona che sa che non gli resta molto da vivere che ama così tanto il lavoro che fa, che lo fa in un cimitero…

Pranzammo poi nel ristorante di un albergo che si trovava proprio di fronte a casa dei Provenzano e decidemmo, dopo che avevamo finito, di provare a citofonare. Il Gennaro che avevo conosciuto non avrebbe mai permesso che a farlo non fosse lui, ma per la prima volta mi disse che era stanco e mi chiese che fossi io a provare. Lo feci. Citofonai, ma ovviamente nessuno rispose mentre Fabrizio era pronto a scattare.Tornando a Roma, dopo essere stati anche nel bunker dell’Ucciardone per intervistare una pm antimafia, in aereo io e Gennaro tirammo fuori i portatili e cominciammo a scrivere. Ci accorgemmo pochi minuti dopo che avevamo fatto un attacco uguale. Fui contento: dal maestro neppure maestro di se stesso, qualcosa avevo imparato.
Atterrati, dopo essere passati dalla redazione romana di Gente, andammo a mangiare una pizza in un posto poco distante. A un certo punto Gennaro mi fa: “Ho fatto due calcoli, bene che mi vada vivrò al massimo un altro paio di anni”. Mi si gelò la schiena. Ma fu lui stesso a tirarmi fuori dall’imbarazzo, sdrammatizzando: “Vabbè, meglio che non ci penso, altrimenti mi butto nel lago!”.

Fu l’ultima volta che lo vidi, continuai a sentirlo telefonicamente e ogni volta lui chiudeva la conversazione con “Vabbè, l’importante che ci sta la salute!”.
Morì il primo maggio. L’ho sempre considerato un segno. E penso che la sua storia, come i suoi articoli, andrebbero studiati nelle scuole di giornalismo o da chi vuole fregiarsi dell’appellativo di cronista.

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