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Il trucco e parrucco dei talk show televisivi

12 Dicembre 2015

Qualche studioso del film western sostiene che il nostro “spaghetti western” altro non è  che un “operatic western”, ossia il rivestimento con stilemi operistici (e con gusto melodrammatico) della  tipica narrazione epica, nazionale  e popolare, americana del cinema western,  generalmente trattata, nell’originale, con stilemi mentali-culturali veterotestamentari, ossia  con situazioni-tipo molto ricorrenti  in cui il fuorilegge viene perseguito con inflessibilità protestante fino alla forca  e il passaggio da una costa all’altra è narrato con l’epos  palpitante  e l’afflato biblico del libro dell’Esodo. Altro che il buono (tenore) il brutto (baritono) e il cattivo (basso). Lo studioso Michael  Waltzer ha scritto un libro penetrante (“Esodo e rivoluzione”) sulle famiglie di significato dell’esodo biblico e del suo raccordo con  le categorie spirituali del radicalismo politico, mentre noi coi  pasticci amministrativi inenarrabili, grazie a tecnici preclari sulla e carta mai verificati prima alla prova dei fatti, abbiamo solo creato la categoria degli esodati. Prevarrebbero  così nel “trattamento” cinematografico  italiano  del  genere western solo i dati di contesto (gli indiani, i fuorilegge, i deserti finti dell’Andalusia) ma mancherebbe   clamorosamente  il testo drammaturgico,  i motivi portanti del western classico americano legati  soprattutto a impianti narrativi di tradizione e iconologia  protestanti.

Analogamente, oggi l’informazione italiana, soprattutto televisiva, seguìta a ruota da quella sul web coi suoi policromi titoloni bau bau rinnovati ogni quarto d’ora (Huffington post),  si avvale di linguaggi spastici e dilatati e di drammatizzazioni operistiche e carnevalizzazioni cattoliche (barocche e quaresimali assieme,  ossia con molta punizione alternata a divertimento) con molto trucco e parrucco, molti toni esagitati,  con esagerazioni  di  ceroni, bistro e sopracuti,  e molte scene madri in cui a morire è il soprano, il tenore, il baritono, il basso, tutti,  e la platea batte le  mani soddisfatta  – come si fa oggi anche ai funerali  – a tempi cadenzati, non appena si accende la lucina. Raramente strutture narrative  forti con una esaustiva ricognizione dei fatti, ma tanta rappresentazione scenica, drammaturgia  teatrale e operistica.

Spesso sigle musicali ossessive, quella di “Piazza pulita” dà i brividi, o al contrario musiche evasive – sulla scia dei film di Moretti, graditissime le canzonette specie se balneari o scacciapensieri, ma anche il rock più di nicchia e dunque prestigioso per gli happy few  è particolarmente scelto alla consolle  di “Report” – precedono come preludi foschi  o  accompagnano  come bassi continui dolorosi, la rappresentazione in atto, dove,  o in esordio o in mezzo  o in chiusura di rappresentazione non manca mai il comico dell’Opera Buffa,  che dovrebbe ridurre il voltaggio drammatico,  a bella posta portato all’estremo dai conduttori, per poi essere consegnato caldo caldo alle “freddure” del comico, il quale  non manca mai, oramai,  neanche nei programmi naturalistici sugli svassi migratori o sugli gnu del  Serengeti.  (Dario Vergassola, “Alle faldi del Kilimangiaro”).

Nell’informazione  televisiva di approfondimento – tralascio certi telegiornali dove le notizie sono un interludio tra un servizio sulla mostra canina e quello sul pitone scappato –  parlo dei talk show, l’elemento di drammatizzazione spesso è dato dalla cavea dello studio televisivo  ridotta ad arena dove il sangue è quello del poveraccio (il sanguinaccio dunque) portato a testimone dolente  del bordello  Italia o  del politico giustiziato  sulla pubblica piazza. La narrazione-tipo, vera e propria funzione proppiana di questi speciali  “sangue e arena”  sembra essere questa: giornalisti benestanti vestiti da Caritas (Corrado Formigli), meglio con barbe incolte, visi e crani da ergastolani e jeans sdruciti (Gianluigi Paragone), che mettono nella cavea televisiva il soluto giro di apparatcik di  estrema destra ed estrema sinistra sperando che si azzuffino a sangue come i galletti messicani. O schemi narrativi ferrei ove vengono aizzati popolani in difficoltà – in difficoltà con lo  stipendio, il fisco, Equitalia, l’ipotassi e le subordinate-  contro il politico di turno: meglio se è l’ultimo arrivato e non c’entra niente con il passato malcostume, ma è dopotutto  ciò che si merita o a cui egli segretamente aspira,  visto che  in ogni caso pur di apparire davanti alla boccuccia della telecamera, farebbe questo e altro,  e prendersi i torsoli dell’Ambra Jovinelli televisiva è un piacere per chi sa che l’anonimato parlamentare non paga.

Pezzo forte dell’ operatic information  è l’inseguimento della sgallettata o dello spettinato reporter del politico sfuggente sui marciapiedi  invasi  da autovetture di una Roma babilonese. Più il microfono è cacciato sotto il naso, più anfanante è la rincorsa del molestatore giornalista inquirente,  più l’effetto-verità sembra incontrovertibile: non vuole rispondere, quindi  è lui il colpevole…

Quando il tono scema, ecco che la telecamera  zooma sul popolano incazzato: “facite a faccia feroce” sembra dire con la mimica da domatore da circo il conduttore (Michele Santoro, ormai sparito dai palinsesti),  che dall’esperienza giovanile di  “Servire il popolo” non ha mai deflesso e anche adesso (chissà quando ritornerà, se ritornerà)  immagina format in cui il popolo si possa ancora “servire”, facendolo sfogare, meglio se armato di forconi, quel forcone che possa richiamare di più dal punto di vista iconico la pupulace del Museo Carnavalet di Pargi, quella della rivoluzione francese,  e si sa, una quota di sanculotti non può mancare in qualsiasi  rivoluzione che si rispetti. Non di rado davanti ad alcune  momentanee impasse   affiorano  a  galla ( a mo’ di riempitivo) veri soggetti teatrali con tipica gestualità da sceneggiata napoletana, e quando interviene la caduta degli zuccheri ecco che  si provvede drammaturgicamente a inscenare  veri e propri copioni dove  “Isso, issa e o malamente”  sono impersonati da  attori recitanti  che replicano “tutti i particolari in cronaca”. Ma il momento clou è spesso quando il drammone popolare è giunto al suo climax, e dopo che gli ospiti si sono rostrati gli occhi a sangue, ecco il conduttore o la conduttrice – forse scontrosa o che forse deve fare la pipì come canta Paolo Conte –  che dà il suo time out con “Devo andare in pubblicità”, costi quel che costi e pereat mundus…

Raramente  non  dico mediare ( e sarebbe auspicabile) ma spiegare, argomentare, ricercare e squinternare tutte le cause della notizia messa al centro del dibbbatito (Arbasino), rarissimamente approfondire con calma, e quando lo si fa l’urgenza è di correre all’arena con i referti ancora caldi, da offrire  alle belve degli ospiti in studio:  e qui, vene gonfie del collo, occhi fuori dalle orbite, dita negli occhi, seggiole spostate come a teatro e vaffa clamorosi e abbandoni teatrali di scena, ma anche raillerie,  persiflage (termini usati da Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli  italiani”), sfottò  e presa per i fondelli , e mai mai mai rispetto dei turni di conversazione (come ancora annotato da Leopardi in quel “Discorso”.

Cambiare formula della rappresentazione operistica si può? Magari, chissà, suggerisco di chiamare qualche volta  il popolo davanti al patibolo: quello vero,  però, quello “sono un italiano vero” di Cutugno, quello che finge gli incidenti automobilistici, che frega le posate nei ristoranti e le asciugamani negli alberghi, che lampeggia gli altri automobilisti per segnalare i controlli di polizia,  quel popolo di coniugi con più residenze per evadere l’imposizione fiscale.  E chissà, almeno tentare  una sola volta di sciogliere il Grande Enigma  Italiano:  non si pagano le tasse perché troppo alte, o le tasse sono alte perché non si pagano? Un popolo chiamato a portare il proprio vero sangue nell’arena, dicono che non farebbe  audience, ci sarebbe l’aspetto rispecchiamento, mentre lo spettacolo esige l’invettiva contro il mondo e  il pollice verso contro gli altri.  Meglio il popolo finto, operistico, il loggionista artificiale che applaude ogni quarto d’ora quando lampeggiano le luci con su scritto “Applausi”.

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