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Il trucco e parrucco dei talk show televisivi
Qualche studioso del film western sostiene che il nostro “spaghetti western” altro non è che un “operatic western”, ossia il rivestimento con stilemi operistici (e con gusto melodrammatico) della tipica narrazione epica, nazionale e popolare, americana del cinema western, generalmente trattata, nell’originale, con stilemi mentali-culturali veterotestamentari, ossia con situazioni-tipo molto ricorrenti in cui il fuorilegge viene perseguito con inflessibilità protestante fino alla forca e il passaggio da una costa all’altra è narrato con l’epos palpitante e l’afflato biblico del libro dell’Esodo. Altro che il buono (tenore) il brutto (baritono) e il cattivo (basso). Lo studioso Michael Waltzer ha scritto un libro penetrante (“Esodo e rivoluzione”) sulle famiglie di significato dell’esodo biblico e del suo raccordo con le categorie spirituali del radicalismo politico, mentre noi coi pasticci amministrativi inenarrabili, grazie a tecnici preclari sulla e carta mai verificati prima alla prova dei fatti, abbiamo solo creato la categoria degli esodati. Prevarrebbero così nel “trattamento” cinematografico italiano del genere western solo i dati di contesto (gli indiani, i fuorilegge, i deserti finti dell’Andalusia) ma mancherebbe clamorosamente il testo drammaturgico, i motivi portanti del western classico americano legati soprattutto a impianti narrativi di tradizione e iconologia protestanti.
Analogamente, oggi l’informazione italiana, soprattutto televisiva, seguìta a ruota da quella sul web coi suoi policromi titoloni bau bau rinnovati ogni quarto d’ora (Huffington post), si avvale di linguaggi spastici e dilatati e di drammatizzazioni operistiche e carnevalizzazioni cattoliche (barocche e quaresimali assieme, ossia con molta punizione alternata a divertimento) con molto trucco e parrucco, molti toni esagitati, con esagerazioni di ceroni, bistro e sopracuti, e molte scene madri in cui a morire è il soprano, il tenore, il baritono, il basso, tutti, e la platea batte le mani soddisfatta – come si fa oggi anche ai funerali – a tempi cadenzati, non appena si accende la lucina. Raramente strutture narrative forti con una esaustiva ricognizione dei fatti, ma tanta rappresentazione scenica, drammaturgia teatrale e operistica.
Spesso sigle musicali ossessive, quella di “Piazza pulita” dà i brividi, o al contrario musiche evasive – sulla scia dei film di Moretti, graditissime le canzonette specie se balneari o scacciapensieri, ma anche il rock più di nicchia e dunque prestigioso per gli happy few è particolarmente scelto alla consolle di “Report” – precedono come preludi foschi o accompagnano come bassi continui dolorosi, la rappresentazione in atto, dove, o in esordio o in mezzo o in chiusura di rappresentazione non manca mai il comico dell’Opera Buffa, che dovrebbe ridurre il voltaggio drammatico, a bella posta portato all’estremo dai conduttori, per poi essere consegnato caldo caldo alle “freddure” del comico, il quale non manca mai, oramai, neanche nei programmi naturalistici sugli svassi migratori o sugli gnu del Serengeti. (Dario Vergassola, “Alle faldi del Kilimangiaro”).
Nell’informazione televisiva di approfondimento – tralascio certi telegiornali dove le notizie sono un interludio tra un servizio sulla mostra canina e quello sul pitone scappato – parlo dei talk show, l’elemento di drammatizzazione spesso è dato dalla cavea dello studio televisivo ridotta ad arena dove il sangue è quello del poveraccio (il sanguinaccio dunque) portato a testimone dolente del bordello Italia o del politico giustiziato sulla pubblica piazza. La narrazione-tipo, vera e propria funzione proppiana di questi speciali “sangue e arena” sembra essere questa: giornalisti benestanti vestiti da Caritas (Corrado Formigli), meglio con barbe incolte, visi e crani da ergastolani e jeans sdruciti (Gianluigi Paragone), che mettono nella cavea televisiva il soluto giro di apparatcik di estrema destra ed estrema sinistra sperando che si azzuffino a sangue come i galletti messicani. O schemi narrativi ferrei ove vengono aizzati popolani in difficoltà – in difficoltà con lo stipendio, il fisco, Equitalia, l’ipotassi e le subordinate- contro il politico di turno: meglio se è l’ultimo arrivato e non c’entra niente con il passato malcostume, ma è dopotutto ciò che si merita o a cui egli segretamente aspira, visto che in ogni caso pur di apparire davanti alla boccuccia della telecamera, farebbe questo e altro, e prendersi i torsoli dell’Ambra Jovinelli televisiva è un piacere per chi sa che l’anonimato parlamentare non paga.
Pezzo forte dell’ operatic information è l’inseguimento della sgallettata o dello spettinato reporter del politico sfuggente sui marciapiedi invasi da autovetture di una Roma babilonese. Più il microfono è cacciato sotto il naso, più anfanante è la rincorsa del molestatore giornalista inquirente, più l’effetto-verità sembra incontrovertibile: non vuole rispondere, quindi è lui il colpevole…
Quando il tono scema, ecco che la telecamera zooma sul popolano incazzato: “facite a faccia feroce” sembra dire con la mimica da domatore da circo il conduttore (Michele Santoro, ormai sparito dai palinsesti), che dall’esperienza giovanile di “Servire il popolo” non ha mai deflesso e anche adesso (chissà quando ritornerà, se ritornerà) immagina format in cui il popolo si possa ancora “servire”, facendolo sfogare, meglio se armato di forconi, quel forcone che possa richiamare di più dal punto di vista iconico la pupulace del Museo Carnavalet di Pargi, quella della rivoluzione francese, e si sa, una quota di sanculotti non può mancare in qualsiasi rivoluzione che si rispetti. Non di rado davanti ad alcune momentanee impasse affiorano a galla ( a mo’ di riempitivo) veri soggetti teatrali con tipica gestualità da sceneggiata napoletana, e quando interviene la caduta degli zuccheri ecco che si provvede drammaturgicamente a inscenare veri e propri copioni dove “Isso, issa e o malamente” sono impersonati da attori recitanti che replicano “tutti i particolari in cronaca”. Ma il momento clou è spesso quando il drammone popolare è giunto al suo climax, e dopo che gli ospiti si sono rostrati gli occhi a sangue, ecco il conduttore o la conduttrice – forse scontrosa o che forse deve fare la pipì come canta Paolo Conte – che dà il suo time out con “Devo andare in pubblicità”, costi quel che costi e pereat mundus…
Raramente non dico mediare ( e sarebbe auspicabile) ma spiegare, argomentare, ricercare e squinternare tutte le cause della notizia messa al centro del dibbbatito (Arbasino), rarissimamente approfondire con calma, e quando lo si fa l’urgenza è di correre all’arena con i referti ancora caldi, da offrire alle belve degli ospiti in studio: e qui, vene gonfie del collo, occhi fuori dalle orbite, dita negli occhi, seggiole spostate come a teatro e vaffa clamorosi e abbandoni teatrali di scena, ma anche raillerie, persiflage (termini usati da Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”), sfottò e presa per i fondelli , e mai mai mai rispetto dei turni di conversazione (come ancora annotato da Leopardi in quel “Discorso”.
Cambiare formula della rappresentazione operistica si può? Magari, chissà, suggerisco di chiamare qualche volta il popolo davanti al patibolo: quello vero, però, quello “sono un italiano vero” di Cutugno, quello che finge gli incidenti automobilistici, che frega le posate nei ristoranti e le asciugamani negli alberghi, che lampeggia gli altri automobilisti per segnalare i controlli di polizia, quel popolo di coniugi con più residenze per evadere l’imposizione fiscale. E chissà, almeno tentare una sola volta di sciogliere il Grande Enigma Italiano: non si pagano le tasse perché troppo alte, o le tasse sono alte perché non si pagano? Un popolo chiamato a portare il proprio vero sangue nell’arena, dicono che non farebbe audience, ci sarebbe l’aspetto rispecchiamento, mentre lo spettacolo esige l’invettiva contro il mondo e il pollice verso contro gli altri. Meglio il popolo finto, operistico, il loggionista artificiale che applaude ogni quarto d’ora quando lampeggiano le luci con su scritto “Applausi”.
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