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Il titolo di Libero è becero, ma lecito. La querela è molto peggio

18 Novembre 2015

Quel titolo, “bastardi islamici”, utilizzato da Libero per definire i massacri perpetrati a Parigi, ha scatenato polemiche e reazioni veementi, procurando anche una querela al suo direttore.

Libero (o Il Giornale), e non da oggi, titolano in maniera urlata, aggressiva e scomposta, spesso sguaiata.

E’ la cifra stilistica del giornalismo di Maurizio Belpietro, che a sua volta è mutuata da quella del suo maestro Vittorio Feltri.

Berlusconi – che a quel tempo era editore di Montanelli – un giorno lo esortò ad imbracciare la sciabola, in luogo del fioretto, per ripagare Agnelli, Scalfari, De Benedetti dello stesso trattamento che loro gli riservavano.

Rimanendo sulla metafora montanelliana: i vari Belpietro, Feltri, Sallusti prediligono brandire la clava per colpire, senza tante remore, nemici e avversari.

Dunque quel titolo infelice non dovrebbe stupire o scandalizzare più di tanto; e sicuramente Belpietro ne avrà fatti di peggiori.

Forse non è nemmeno un caso che in un momento di crisi generale dei giornali, Libero e il Giornale ne risentono maggiomente e il numero dei loro lettori va assottigliandosi sempre di più.

La denuncia al direttore di Libero proviene da Maso Notarianni, genero di Gino Strada (a proposito: perché Strada, padre e figlia, non la smettono di fare politica attiva e si limitano a dedicarsi al loro – encomiabile – lavoro umanitario?), ma non è certo l’unico a pensarla in questo modo: da qualche giorno imperversa sul web una raccolta di firme per chiedere le dimissioni di Belpietro e la sua radiazione dall’albo dell’Ordine dei Giornalisti.

La prima considerazione da farsi è sulla deprecabile e diffusa tendenza italiana a querelare i giornalisti: una querela andrebbe sporta solo in casi davvero eccezionali, bisognerebbe farne un uso molto più parco, mentre da noi è ormai invalsa come prassi abituale alla quale ricorrono politici protervi, potentati economici, ma anche gli stessi giornalisti, per lo più come forma di intimidazione, per tacitare chi la pensa diversamente (come è a mio avviso in questo caso) o fa inchieste scomode.

E questa, checché se ne dica, la ragione principale per cui noi italiani siamo in fondo a tutte le classifiche sulla libertà di informazione.

E’ di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che Fabio Fazio ha querelato per diffamazione Giampaolo Pansa, reo di essersi lamentato per non essere mai stato invitato nella sua trasmissione (che è dal punto di vista culturale la più influente in Italia), e per essersi permesso di criticarlo per l’ospitata dell’ex ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, costata 24.000 euro (oltre a un volo in prima classe offerto anch’esso dalla Rai).

A mio avviso, anche in questo caso, chi ha a cuore la libertà d’espressione (e di critica) non può che parteggiare per Pansa (nonché per l’altro querelato, che è ancora Belpietro).

Ma tornando al titolo di Libero, perché in tanti si sono adontati per quel “bastardi islamici”?

Ora, pur essendo vero che il fondamentalismo jiadhista, di cui quegli attentatori sono latori, alligna nell’islam, l’accostamento tra i terroristi e la loro religione suona come un’indebita e indiscriminata generalizzazione di chiunque professa quella religione.

E’ evidente  che Belpietro si riferiva agli attentatori, e non ai mussulmani in genere, ma perché enfatizzare l’elemento religioso che è tutto sommato superfluo? Avrebbe dovuto sostituire il termine “islamici” con quello di “terroristi”, “assassini” o qualcosa del genere.

Così facendo Belpietro non fa buona informazione, ma vellica gli istinti più retrivi dei suoi lettori.

Insomma, un titolo non certo equilibrato e pacato, ma pur sempre solo un titolo, cioè una sintesi giornalistica sommaria che serve ad attirare l’attenzione del lettore. Merita una querela?

La risposta è un macroscopico no. La libertà di espressione contempla anche la possibilità di farne un uso discutibile. Per questo va difesa la liceità di Belpietro ad adottare un linguaggio estremo e dei toni grevi; e se esiste un giudice a Berlino, come ebbe a dire il mugnaio Arnold, questo non potrà che riconoscerlo.

D’altronde se Claudio Magris, uno dei più autorevoli intellettuali italiani, può adoperare nel suo splendido editoriale sul Corriere della Sera il termine “imbecille”, non si vede perché non consentire a Belpietro di utilizzare un termine trucido, “bastardi”, per confezionare il suo titolo.

Se non piace, ed è perfettamente legittimo, il giornalismo di Belpietro lo strumento più democratico per “punirlo” non è certo adire le vie legali; basta non acquistare quel quotidiano.

Ciò che ravviso in molti di coloro che sono favorevoli alla querela intentata contro Belpietro (e a conseguenti punizioni esemplari) è solo una volontà censoria e prevaricatrice, che riflette un’intransigenza tale da rasentare l’intolleranza più fanatica.

Non mi risulta che costoro abbiano manifestato altrettanto sdegno per vicende di ben altra gravità: quelle che hanno riguardato Saviano o Rampini, conclamati plagiatori; o il direttore di QN Andrea Cangini, per la notizia, rivelatasi falsa, di un tumore cerebrale di Papa Bergoglio; o ancora quella che ha coinvolto il direttore de L’Espresso, Luigi Vicinanza, per un’intercettazione di Crocetta presumibilmente farlocca.

Sono gli stessi che fino a un giorno prima, un po’ per conformismo un po’ per affettare un afflato liberale e democratico a loro estraneo, a parole si proclamavano “Charlie” (in difesa della più ampia libertà d’espressione); salvo poi sconfessare questi ideali il giorno seguente, allorché, tanto per rimanere in tema, lanciarono strali furibondi contro Emilio Giannelli per una sua vignetta sugli immigrati (naturalmente invece sulle vignette più nefande di Vauro non hanno mai avuto nulla da ridire).

 

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