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Il presente è caotico ma le opportunità per giornalisti saranno sempre di più
Per immaginare i futuri possibili dell’informazione, gli studenti del Tow-Knight Center for Entrepreneurial Journalism di New York hanno ideato un gioco. Da quattro diversi mazzi, disposti su un tavolo, pescano altrettante carte: la prima indica uno degli obiettivi cardine del buon giornalismo (come “informare” o “stimolare il dibattito”); la seconda, una sua caratteristica imprescindibile (“verità” o “imparzialità”), la terza e la quarta, invece, un tipo di tecnologia o di piattaforma (“robot”, “realtà aumentata”, “social network” e così via). Disposte le quattro carte davanti ai loro occhi, in aula i ragazzi riflettono su come tracciare un filo rosso che colleghi tutti gli elementi tra loro. Un brainstorming ad ampio raggio, nel tentativo di ipotizzare nuovi possibili percorsi tanto per la produzione e la distribuzione delle news, quanto per la sostenibilità dei giornali. Nove volte il risultato è deludente, ma poco importa: ciò che conta davvero è cercare la decima.
La svalutazione del contenuto
Dall’altra parte della cattedra, a dirigere la sessione e stimolare i ragionamenti, c’è il direttore del Center Jeff Jarvis, uno degli analisti di giornalismo e media più influenti d’America, autore del blog BuzzMachine e consulente per numerosi grandi gruppi editoriali durante loro transizione al digitale. Pochi giorni fa Jarvis ha pubblicato un nuovo libro intitolato Geeks Bearing Gifts, in cui esplora i futuri (il plurale è voluto) del giornalismo partendo da un dato di fatto: ad essere in crisi non è l’informazione, che gode di ottima salute; sul baratro si trovano i giornali e i loro modelli di business. Ora che le vecchie fonti di guadagno (abbonamenti cartacei e pubblicità) sono state distrutte dalla tecnologia, e che l‘abbondanza di contenuti online ha trasformato le news in una commodity – un bene indifferenziato come il ferro, lo zucchero o il petrolio -, il 60enne americano predice una nuova funzione del giornalismo: non più un processo di narrazione della realtà attraverso la produzione di un contenuto rivolto ad un pubblico, ma un servizio per la comunità.
Una nuova definizione di giornalismo
Qual è lo scopo del giornalismo, secondo Jarvis?
«Aiutare una comunità di individui ad organizzare meglio la propria conoscenza, affinché possa organizzare meglio se stessa»
Servire i cittadini, dunque, ascoltando i loro spunti e accogliendo i loro contributi, interagendo con l’ecosistema di riferimento ed i suoi protagonisti – quelli che lo abitano. I tempi sono cambiati, scrive Jarvis: il giornalista non ha più i mezzi e l’autorità necessari per dettare la dieta informativa al proprio pubblico, composto da quelli che un tempo erano conosciuti come “i lettori” e che grazie al web sono diventati anche produttori e distributori di news. Oggi le notizie arrivano da più fonti, spesso dal basso, e i giornali hanno perso il proprio ruolo di unico filtro tra la realtà e la pubblica conoscenza: quando nel mondo accade qualcosa di rilevante, lo apprendiamo prima da Twitter che dalla homepage del New York Times. Scesi dal piedistallo dove hanno soggiornato per anni, dunque, i giornali devono cominciare ad ascoltare le esigenze degli individui, smettere di parlare alla massa. La massa come entità autonoma non esiste, osserva Jarvis: è stata creata dai media ed è stata uccisa dalla rete.
Non più utenti ma individui
Se finora abbiamo trattato tutti i lettori come un unicum indistinto – gli utenti unici dei nostri siti di cui conoscevamo al massimo la provenienza geografica e l’età indicativa – oggi abbiamo la possibilità di conoscerli in profondità. Di instaurare uno scambio con loro, di imparare da loro: quali sono i loro interessi, dove lavorano, che tipo di informazione cercano. Dobbiamo imparare ad ascoltare le loro richieste, costruire piattaforme in grado di apprendere dai loro click. Con lo stesso modus operandi di Google che, dando fiducia agli utenti, dandogli voce, e creando un algoritmo in grado di modellarsi sulle ricerche effettuate, ha costruito la sua supremazia e la sua macchina perfetta. Assegnare un “volto” e una silhouette di dati realistici a chi ci legge ci aiuta a fornire una user experience più efficace, e al contempo ci consente di vendere agli inserzionisti pubblicità più mirate – cioè, più redditizie. Come fare perché i lettori diano ai giornali queste importanti informazioni? Ovviamente, le testate devono offrire loro qualcosa in cambio. Smettendo in primo luogo di comunicare dall’alto al basso e one-to-many, e diventando piuttosto piattaforme che sì informino gli individui nel senso più tradizionale del termine, ma che allo stesso tempo diano loro gli strumenti tecnologici adatti per strutturare e raccogliere quell’informazione e successivamente veicolarla ad altri. Perché disintegrando la struttura verticale di giornali e broadcaster, conservativa e monodirezionale, gli ecosistemi dell’informazione crescono e si valorizzano.
Che cosa resta dei giornalisti?
In questo scenario, scrive Jarvis, il ruolo del giornalista non scompare. Si evolve, diventando un ruolo di advocacy: facendo domande che ancora non sono state fatte, raccogliendo le segnalazioni della comunità e portandole all’attenzione pubblica, investigando su di esse, aggiungendo contesto e spiegazioni, contribuendo con credibilità e autorità (due caratteristiche che oggi i lettori non riconoscono più ai giornali), curando i flussi di news, organizzando i dati, verificando fonti e smentendo bufale. E infine, ma solo alla fine, rendendo l’informazione accessibile attraverso il contenuto, che non deve più essere il prodotto ultimo e unico della catena informativa, ma solo uno degli elementi costitutivi del processo. I giornalisti devono dunque organizzare, educare, agire e dare alle proprie comunità di riferimento – quelli che un tempo chiamavamo lettori – gli strumenti giusti per organizzarsi, educarsi, agire a propria volta. Costruendo con essa un rapporto simbiotico basato su una strategia “di relazione” che, per Jarvis, rappresenta la nuova spina dorsale del giornalismo.
La de-composizione dell’articolo
In questo rinnovamento globale, a cambiare sono anche i formati in cui le notizie vengono veicolate. In primis l’articolo, che il direttore del Tow-Knight Center immagina come un’entità flessibile e modulare, capace di adattarsi automaticamente, grazie agli algoritmi, alle esigenze e al grado di conoscenza di ogni lettore; non più composto da un blocco unico, ma da un puzzle di fonti informative distinte in grado di essere esplorate o meno a seconda delle necessità individuali e sfruttando al massimo le potenzialità del link, che Jarvis identifica come la vera valuta del web – Google, che indicizza i contenuti in base al numero di collegamenti rilevanti, insegna. Perché creare un contenuto, quando esiste già e possiamo semplicemente linkare ad esso? «Ancora assegnamo più valore alla creazione del contenuto che alla creazione del pubblico, dell’audience», si legge in Geeks Bearing Gifts. «Ma la sovrabbondanza di informazioni disponibili in rete conduce il valore del contenuto verso lo zero», una delle ragioni per cui i paywall possono rappresentare soltanto una soluzione parziale. Curando e valorizzando i contenuti altrui, e trovando il modo di condividere gli introiti da essi derivati, i giornali possono risparmiare denaro e dare nuova linfa all’intera catena produttiva del web, dal singolo cittadino al blogger, dal freelance al New York Times. Alimentando l’intero ecosistema, ci guadagnano tutti.
Il giusto puzzle del bilancio
L’analista americano non propone modelli certi, ma si dice sicuro di una cosa: «Scommetto che le news non saranno più in pugno alle grandi corporation verticali», rappresentate dai vecchi (o legacy) media. Al contrario, le news arriveranno da ecosistemi distribuiti, costituiti da realtà editoriali specializzate di varie dimensioni e sostenute da differenti modelli di business. I giornali di domani guadagneranno unendo diverse fonti di introiti: la pubblicità, certo, ma anche i paywall e le sottoscrizioni, l’organizzazione di eventi, il commercio di prodotti, i servizi alla persona, i finanziamenti dalle fondazioni e, non ultimo, i dati degli utenti. Non c’è una ricetta unica, dunque. O, perlomeno, non l’abbiamo ancora scoperta. Se pensiamo che affinché la rivoluzione avviata dalla stampa a caratteri mobili inventata da Johannes Gutenberg (alla cui eredità storica Jarvis ha dedicato l’ebook “Gutenberg il Geek”, di cui ho curato nel 2013 la versione italiana, nda) si compisse ci vollero 150 anni, e che noi siamo solo all’inizio di una nuova era, dobbiamo ancora avere pazienza. E continuare a rimescolare le carte che abbiamo sul tavolo, aggiungendone via via di nuove al mazzo.
«Il giornalismo sarà caotico e incostante per un certo periodo. Ma ci sarà una domanda sempre crescente di notizie e informazioni. Ora che il pubblico possiede più mezzi di condivisione, aumenteranno anche le fonti di notizie», chiude Jarvis. «Di conseguenza, scommetto che il bisogno e le opportunità per giornalisti saranno sempre di più. Se non lo credessi, non insegnerei in una scuola di giornalismo».
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